È impossibile scrivere a proposito di Notre-Dame qualche cosa che qualcuno, re, presidente o passante su Facebook o Twitter, non abbia già scritto. È facile perdersi tra milioni di commenti via Internet, e passare a lato dell’essenziale.
Nel 1789, avuta notizia della presa della Bastiglia, il re Luigi XVI chiese al duca di Liancourt se fosse in corso una rivolta a Parigi. “No, sire – rispose il duca – è una rivoluzione”. Così forse il presidente Macron avrà chiesto a qualcuno, mentre si accingeva a pronunciare un discorso televisivo, poi cancellato, per puntellare la sua traballante popolarità, se davvero ci fosse un incendio a Notre-Dame. “No, presidente – si sarebbe potuto, forse dovuto, rispondergli – è la fine di un mondo”.
Per il cristiano, e glielo ricorda la Settimana Santa, la fine di un mondo è un simbolo della fine del mondo. Pochi preti, vescovi e pastori ne parlano ancora, ma la Scrittura è chiarissima sul punto. Questo mondo è destinato a finire. E così finiscono i mondi, al plurale, le nazioni e le civiltà.
Quando un avvenimento emblematico accade, è il segno che un mondo è già finito. Gli storici sanno che il mondo antico non è finito nel 476, quando il barbaro Odoacre ha deposto l’ultimo imperatore romano, Romolo Augustolo. Era già finito da anni, si fingeva che ci fosse un imperatore ma non contava più nulla. E certamente nel 1492, quando Cristoforo Colombo scopre l’America, il Medioevo è già finito da un pezzo. L’egemonia incontrastata degli Stati Uniti sul mondo successivo alla caduta del comunismo sovietico era già finita prima dell’11 settembre 2001, o forse non era mai cominciata.
Forse un giorno qualche storico fisserà al 15 aprile 2019 la fine dell’Europa, o della stessa civiltà occidentale, come i secoli l’avevano formata, dal Medioevo – anche chi scioccamente usa l’espressione come sinonimo d’ignoranza e di oscurantismo oggi piange su Notre-Dame, il monumento più medioevale che ci sia – al Rinascimento e all’Illuminismo, fino alle gioie e ai dolori della modernità, che ha dato all’Occidente le meraviglie del progresso scientifico e gli orrori delle camere a gas e delle bombe atomiche. Una data bisognerà pure trovarla, ma l’Europa è già finita da tempo. Solo un inguaribile ottimista potrebbe pensare che gli occidentali, gli europei, o anche solo i francesi – come gli italiani – condividano ancora valori comuni, si tratti di quelli cristiani o di quelli dell’Illuminismo, o magari – come insegnava Benedetto XVI, ormai anche lui ridotto da chi non lo comprende né lo rispetta a bandierina per guerre tribali fra cattolici – di tutti e due. Giovanni Paolo II e Benedetto XVI avevano suonato la campana dell’ultimo giro. Ora il giro è compiuto, e dell’“Europa di Notre-Dame” di cui parlava George Weigel per contrapporla nostalgicamente ad altre Europe non resta più intatta neppure Notre-Dame.
È la fine di un mondo. Ma non è la fine del mondo. E non è la fine del cristianesimo. Una delle grandi lezioni di Papa Francesco – non l’ha inventata, ma la ripete a chi non la vuole sentire – è che il cristianesimo non è legato a una civiltà determinata. È sopravvissuto alla fine dell’Impero Romano, alla fine di Bisanzio, alla fine del Medioevo, alla fine delle monarchie cristiane a cominciare da quella francese. Il cristianesimo – lo hanno fatto i monaci, a partire da San Benedetto – ha sempre saputo salvare la cultura delle civiltà scomparse. Senza i monaci, avremmo perso per sempre tanti classici del mondo antico. Ma il cristianesimo ha sempre dedicato poco tempo a piangere sulle civiltà defunte. Era troppo occupato a costruirne di nuove.
Notre-Dame brucia, un mondo muore e un mondo nasce. Ricostruiamo Notre-Dame, certo – ma più che i cattolici stanno per ora offrendo denaro le stesse grandi fondazioni internazionali che finanziano i Gay Pride: non c’è nulla di male nel fatto che non cattolici vogliano contribuire, anzi, e tuttavia è un segno anche questo – ma accogliamo con umiltà, nella Settimana Santa, il messaggio del terribile evento. Tutti i grandi maestri spirituali c’insegnano che le tragedie contengono sempre un monito. Abbiamo bisogno del dolore come una sveglia che suona per richiamarci al reale che non vediamo. Apriamo gli occhi per liberarci delle illusioni e constatare che un mondo muore. Ma apriamo gli occhi anche alla speranza di un mondo nuovo che nasce, che sarà diverso dal vecchio mondo ma in cui ci sarà ancora la Chiesa – dunque anche le chiese, nel senso di edifici, anche le cattedrali, magari più simili a versioni grandi della cappella di Mark Rothko a Houston che a Notre-Dame – perché sappiamo che, quando finirà la Chiesa, finirà anche la storia. Anche a Parigi, anche a Notre-Dame, anche nella casa di ognuno di noi, dopo il Venerdì Santo viene la Pasqua.