Greta Thunberg, la giovane svedese diventata celebre per la sua protesta ambientalista sui “cambiamenti climatici”, è arrivata a Roma e ieri ha incontrato addirittura papa Francesco, mentre oggi sarà ricevuta dal presidente del Senato Casellati. Un tour davvero impressionante per una sedicenne ormai abituata a navigare tra i personaggi delle più alte sfere del potere. Viene da chiedersi: ma come fa questa bambina sedicenne a essere così scaltra e sicura, così disinvolta nei confronti dei potenti, come ha dimostrato per esempio a Davos durante l’annuale incontro dei potenti e a Bruxelles, invitata dai parlamentari europei?



E ancora: dove trova, questa sedicenne, tutte le risorse, soprattutto economiche, per fare tutti questi viaggi e tutti questi incontri? E soprattutto: come mai i potenti e i media contribuiscono in modo così forte e insistito nel gonfiare e mantenere in primo piano la figura di questa ragazzina come simbolo di una battaglia ecologica che è vecchia e pure tanto sbagliata?



Ebbene sì, la questione del “cambiamento climatico” è roba vecchia, nata negli anni 80 in ambito inglese e per mano del primo ministro Margaret Thatcher, che aveva bisogno di una motivazione forte per far digerire al popolo inglese la scelta del nucleare per la produzione di energia, contro l’utilizzo del carbone. La cosa simpatica è che allora il mondo si stava raffreddando e alla fine degli anni 70 iniziavano a comparire copertine di giornali nei quali si paventava un’era glaciale, dovuta al fatto che l’inquinamento dell’atmosfera “oscurava” in qualche modo i raggi solari e portava a un abbassamento delle temperature.



Il successivo innalzamento delle temperature ha fatto sparire questa narrazione, finché alla fine degli anni 90 è tornata di moda, ma per accusare l’inquinamento umano del contrario, cioè di riscaldare eccessivamente il pianeta. Questa narrativa, con il celebre documentario di Al Gore (e con la successiva attribuzione del premio Nobel per la Pace al suo autore) è diventata virale e poi dominante, sempre con il contributo decisivo dei media e dei poteri forti.

Il fatto è che le ideologie non sono capaci di coinvolgere le masse, di smuovere le coscienze, di affermarsi come un ideale per cui può valere dare la vita, perché non danno un senso alla vita. Quindi le masse non si formano, le persone non seguono e non si mettono d’accordo per lottare insieme. Magari aderiscono a qualche momento patetico, nel senso autentico di pathos, ma nulla più.

All’opposto di questo c’è la vicenda dei gilet gialli in Francia, un movimento nato apparentemente dal nulla, ma in realtà sorto da un profondo malessere la cui origine si può far risalire al referendum bocciato del 2005 sull’adesione alla Costituzione europea e poi clamorosamente disatteso da quel governo e da quelli successivi, creando così una frattura insanabile e insanata tra il potere e il popolo. Una frattura che, all’ennesimo episodio, l’ennesima tassa che colpiva il popolo mentre si favorivano i ricchi, ha portato il popolo in piazza e ha portato alla reazione eccessiva e violenta del potere e di tutti i media.

Un popolo che, nonostante tutti i poteri contro e tutti i media contro, ha continuato nella protesta nonostante le violenze subite: anzi proprio le violenze lo hanno rafforzato nella propria determinazione a continuare le proteste. Soprattutto, trovandosi in piazza, ha reso coscienti queste persone di quello che sono, le ha resi coscienti di essere un popolo, di avere qualcosa da condividere, come coscienza e come destino, tanto che in numerosi casi si sono trovate a cantare a squarciagola l’inno nazionale, mentre la polizia minacciava di caricarle.

La differenza abissale tra il popolo del gilet gialli e la massa dei giovani scesi in piazza contro i cosiddetti “cambiamenti climatici” è emersa e continua a emergere quando quest’ultimi vengono intervistati da qualche volenteroso giornalista, di quelli che non si accontentano di ripetere il mantra dominante (secondo il quale i gilet gialli ormai sono xenofobi, fascisti e pure violenti – pur avendo subito la violenza -, mentre i giovani che protestano contro i cambiamenti climatici sono il futuro che reclama il proprio spazio e finalmente incide sui poteri forti), ma cerca di scoprire la realtà sul campo.

Quando intervistati, i giovani mostrano tutta la propria ignoranza in materia di climatologia, anche nei suoi termini più semplici, mentre i gilet gialli mostrano una coscienza di sé e una competenza politica che la metà basterebbe a un politico per fare veramente l’interesse del popolo. Questo il motivo profondo per cui, dopo oltre cinque mesi, i gilet gialli sono ancora lì in piazza e sembrano irriducibili a ogni potere e ogni tentazione di potere, mentre i giovani in piazza, privi di ogni consistenza culturale e di un minimo di consapevolezza, rischiano di sparire ogni settimana, se non fossero provocati e in qualche modo “risuscitati” dai poteri forti.

Il quadro descritto può essere utile anche per comprendere il terribile incendio che ha colpito Notre Dame. Sicuramente è presto per stabilire eventuali colpe o eventuali crimini, ma una cosa già si può dire: il primo colpevole di quanto accaduto è la trascuratezza nella quale sono abbandonate in Francia (e non solo in Francia) tante opere di valore morale e spirituale, opere di valore popolare, opere che per il solo fatto di esistere contribuiscono a identificare un popolo.

Ultimamente persino la Conferenza episcopale francese aveva lanciato un grido d’allarme relativamente sia allo stato di incuria in cui erano abbandonati i maggiori simboli francesi, tra cui Notre Dame, sia i continui atti vandalici (con diversi incendi), sia le aggressioni nei confronti di ciò che rappresenta il mondo cattolico in Francia. Appelli rimasti inascoltati.

 

Quanto sia cresciuto l’odio anticattolico in Francia potrebbe essere chiesto anche ai volontari dell’Unitalsi, la benemerita associazione che ogni anno con numerosi viaggi accompagna pellegrini e ammalati in carrozzina al santuario mariano di Lourdes. Negli ultimi anni questi viaggi sono diventati un’odissea, poiché i treni che portano questi pellegrini sono a tutti gli effetti treni speciali, straordinari, che non dovrebbero trovare troppi ostacoli nel loro tragitto. Invece, come raccontato dagli organizzatori dei viaggi, “tempi di viaggio paurosi, anche 10 ore più del previsto, fermate per ore e ore in stazioni secondarie francesi o in piena campagna transalpina sotto il sole cocente, aumenti costanti delle tariffe”. I treni con gli ammalati vengono fermati persino per far passare prima i treni merci. E per una persona su una sedia a rotelle un viaggio che oggi supera le ventiquattro ore, invece delle 15-18 necessarie negli anni 80, rischia di diventare una sorta di prova di sopravvivenza.

Questo è il tipo di disprezzo e di odio che i francesi subiscono tutto l’anno. E per questo il loro desiderio di cambiare le cose è così tenace.