Una mamma, Donatella Di Bona, ha strangolato il figlio, un bimbo di due anni. “Piangeva, volevo farlo stare zitto”. Poche righe riassumono la notizia, una tragedia che lascia attoniti, incapaci di pensare, di immaginare. Ogni parola di commento suona insensata, banale, assurda come la tragedia che tenterebbe di definire. La stessa madre, Donatella Di Bona, 29 anni, ha tergiversato a lungo inventandosi situazioni e versioni diverse, prima di confessare quella verità indicibile, inammissibile: dopo aver chiamato lei stessa i soccorsi, aveva dichiarato che il piccolo Gabriel era stato investito da un pirata della strada. Solo alla fine di un serrato interrogatorio ha ceduto, si è arresa, ha messo in fila le sequenze di un gesto che forse non avrebbe mai voluto o potuto mettere a fuoco.
Il bambino “piangeva, voleva tornare dalla nonna, gli ho stretto il collo e chiuso la bocca per farlo stare zitto”: così alla fine descrive l’accaduto. E questa sua confessione, invece di fornire qualche traccia da seguire, schiude un abisso impenetrabile, rischiosissimo da sondare. Ogni pensiero, ogni ipotesi sembrano scivolare e disperdersi lontano dalla concretezza di quei pochi fatti accaduti in un baleno, probabilmente una manciata di minuti: “Piangeva, voleva tornare dalla nonna…”. Queste parole sono forse l’unico appiglio alla realtà, sono l’indizio di una storia che c’è, c’è stata, è carica di esperienze, forse di problemi e fatiche, di qualche sogno, di speranze contraddette, di momenti difficili, di esasperazioni incontrollabili.
Sembra di sentirlo quel pianto di Gabriel interrotto in pochi istanti, soffocato per sempre. Il suo grido represso, la sua vita tradita, annientata da un gesto furibondo della sua mamma, evoca inevitabilmente altri casi analoghi di madri assassine. Indelebili i loro volti, come pure lo smarrimento e l’incredulità che attorno a loro si è sempre creata mentre le cronache inseguono dettagli e piste inestricabili: non le nominiamo, non occorre riportarne i nomi, già risuonati a suo tempo per giorni e mesi. Di loro resta indelebile il dramma, l’intreccio di sgomento e di contraddizioni, di follia e di rabbia, di risentimento… per alcune la pena scontata nonostante la loro convinzione di innocenza, per altre la disperazione fino al suicidio.
L’eco di queste vicende orribili e inquietanti, simboleggiate anche in miti e antiche rappresentazioni, trascina un grido, un grido assordante come l’urlo raffigurato da Munch. Un urlo atroce, carico di sgomento e angoscia, ma anche di una domanda che resiste, insopprimibile. Una domanda sull’esistenza stessa, sull’essere umano così imponderabile, fragile, ferito e inconsapevole di esserlo.
E forse, proprio sull’abisso dell’inconsistenza e del male, il grido disperato può diventare il riconoscimento di un bisogno, di una mancanza incolmabile. Può suggerire un’implorazione, la mendicanza di una misericordia, forse una preghiera: “Liberaci dal male”.