Ucciso per un sorriso, perché felice, perché passava di lì o semplicemente perché era la cosa più banale che poteva fare: il killer di Stefano Leo, il ragazzo di Torino ucciso ai Murazzi del Po lo scorso 23 febbraio, non riesce a spiegar bene il proprio “movente” e dopo i brividi inquietanti vissuti ieri mentre il Procuratore Borgna provava a descrivere l’assurdità di quelle parole confessate dopo essersi costituito spontaneamente, anche oggi non ci si riesce a capacitare di quanto avvenuto. Said Mechaquat, 27enne di origine marocchina, l’ha spiegato così: «volevo ammazzare un ragazzo come me, togliergli tutte le promesse che aveva, toglierlo ai suoi figli e ai suoi parenti». Ma è nell’approfondire il contenuto di quell’interrogatorio che emergono un passato difficile e uno sconvolgimento che – se non spiega fino in fondo l’assurdità e follia dell’omicidio “per felicità” – quantomeno fa intendere quali fossero le “nubi” nella mente malata del killer. «Negli ultimi tempi non riuscivo a tirarmi su: mi ha sconvolto la naturalezza di come si è comportata la mia ex nei miei confronti»: si erano conosciuti nel 2008, lei nel 2012 era rimasta incinta «e io ero felicissimo avevamo tutto». Poi il racconto di un altro uomo che entra nella loro vita e tutto, rapidamente, finisce: in realtà non racconta di come sia avvenuta in mezzo una condanna per maltrattamenti in famiglia e l’ordine del giudice di tenersi a debita distanza dalla compagna.
L’ARMA DEL DELITTO E IL DOLORE DEL PADRE
Per il killer di Stefano Leo quelle violenze non vengono considerate e anzi, lamenta il fatto che la sua ex non le faccia vedere il figlio da ormai due anni: «Sono due anni che non vedo più il bambino. Nella mia testa sono passate tantissime cose anche molto brutte e non sapevo cosa fare. Ero impotente e gli assistenti sociali non facevano nulla», racconta ancora Said negli interrogatori davanti ai giudici di Torino (fonte Repubblica). Poi nel 2018 il litigio col titolare della focacceria di Piazza Castello e la perdita anche del lavoro: «Mi è sempre rimasta in testa la voglia di sfogarmi e di fare del male ma non alla mia famiglia». Poi arriva quella mattina dove racconta lo stesso killer di aver comprato un set di coltelli all’In’s Market: «ne ho tenuto uno solo», che è poi quello fatto ritrovare ieri nella cassetta elettrica vicino ai Murazzi (quello rosa che vedete qui sopra in foto, ndr). «Mi sono seduto sulla panchina, l’ultima prima delle scale che salgono sulla strada. Lì ho aspettato che passasse quello giusto, nel senso che non so nemmeno io chi aspettavo»: poi arriva Stefano Leo e la mente si spegne, «Non sopportavo la sua aria felice. Gli sono andato dietro e l’ho colpito mentre gli sono arrivato quasi sul fianco, sul suo lato destro e impugnando il coltello con la mano sinistra l’ho colpito al collo. Ho attraversato la strada e sono andato in via Bava dove ho preso il tram. Sono poi sceso in corso Peschiera ma non sono sicuro, alla fine sono tornato in piazza D’Armi (dove poi è stato trovato il coltello, ndr)». Il padre di Stefano Leo, dopo questo racconto, è disperato: «volevo un nome. Una ragione. Non questa. Sono senza fiato. Che senso ha scoprire che un ragazzo di trent’anni ammazza un suo coetaneo senza neanche conoscerlo? Che è bastato uno sguardo? Non mi sento meglio. Mi sento malissimo e sto entrando dallo psicologo».