“Ho scelto di ammazzare lui, perché l’ho visto e mi pareva troppo felice e io non potevo sopportare la sua felicità. Volevo uccidere un ragazzo come me, togliergli tutte le promesse che aveva, toglierlo dai suoi figli e dai suoi parenti”. Forse non ci sarebbe neppure nulla da aggiungere alle parole con cui Said Mechout ha confessato l’omicidio di Stefano Leo, letteralmente sgozzato in un freddo sabato di febbraio a Torino, mentre stava semplicemente passeggiando per raggiungere il luogo di lavoro: la felicità dell’altro come causa di odio e di violenza.



Eppure in questa vicenda, in cui i giudizi dozzinali si sprecano, c’è un elemento da non sottovalutare che mette in luce una dinamica che riguarda tutti: il dolore. La vicenda umana di Said è attraversata dal dolore, il dolore per una promessa mancata, per un desiderio che la vita apparentemente ha tradito. Senza lavoro, separato dalla madre di sua figlia, allo sbando, Said ha portato dentro di sé una ferita, di cui anch’egli è certamente responsabile, che non ha trovato nessun luogo dove potesse essere guardata: la solitudine amplifica il dolore e lo espone al più terribile dei demoni, il demone del pensiero.



Quando uno soffre da solo, senza una casa, i pensieri prendono lentamente il sopravvento, deformano la realtà, s’impadroniscono della volontà. È in quel frangente che il dolore, avvertito sempre di più come ingiustizia, amplificato dalla solitudine ed esasperato dai pensieri, diventa improvvisamente violenza, ricerca di un colpevole. Ma l’unico colpevole che rimane, in quel gorgo di depressione e di pensieri psicotici, è il fatto che il Bene, il Bello, il Vero continuino ad esistere, è la percezione di essere stati esclusi dalla grandezza e dalla promessa della vita.

Un assassino è sempre un assassino e niente può giustificarlo. Ma cercare di capire come si diventa assassini è invece compito di tutti, perché il male non è un demone che riguarda gli altri, bensì una possibilità reale della vita e ogni dolore abbandonato a se stesso, al fluire dei pensieri e della solitudine, diventa potenzialmente foriero di violenza.



Quanti matrimoni, in cui ci si è fatto del male reciprocamente, covano sotto la cenere dell’indifferenza un’inaudita crudeltà, una feroce cattiveria! Quante amicizie, ferite dagli errori di tutti, vivono di risentimenti e di vendette! Quante vite, prostrate da indicibili tragedie, cercano rivalsa nel male al prossimo, nel gratuito disprezzo della vita dell’altro! Com’è difficile trovare gente che sappia davvero gioire delle gioie degli altri – senza ricoprirle di sprezzanti pettegolezzi e malcelate cattiverie – e soffrire degli altrui dolori – senza prendere spunto dal male dell’altro per piangersi addosso o commiserare se stessi!

Davvero è insopportabile la felicità altrui ad un uomo che non sente più spazio, che non trova più cittadinanza, per la propria. Non c’è niente come il tradimento della promessa della vita che ci renda più cinici e arrabbiati. Ostaggio di quello che prova, l’uomo ha bisogno di qualcosa che lo liberi, di qualcuno che gli restituisca il diritto di piangere e di essere ascoltato, di una strada dove poter ricominciare.

C’è da domandarsi quanto il nostro tempo, la nostra società, si faccia carico di tutto questo. È l’estremo effetto della fine del cristianesimo: la scomparsa di un luogo che possa accogliere sul serio la nostra tristezza. Ed è questa assenza a renderci tutti vulnerabili, tutti un po’ complici, tutti inermi dinnanzi all’umano che si ribella e che – in uno slancio di lucida follia – uccide il Bene che vede. Pensando di esserne stato per sempre allontanato. Pensando di essere ormai condannato ad abitare l’inferno. Senza accorgersi che una vita non guardata è una vita che brucia e si consuma, è una vita che cerca solo di riaffermare se stessa. Pensando che non esista al mondo Qualcosa da cui ripartire, Qualcuno da cui essere abbracciati.