L’anno scorso, in occasione della Pasqua, Jacopo, detenuto nel Carcere Due Palazzi di Padova, aveva scritto una lettera raccontando di sé. Quest’anno ha scritto a fra Cristoforo dei “Promessi sposi” (ndr)
Caro fra Cristoforo,
sono Jacopo e la mia storia, forse, la conosci già: te l’avranno raccontata in tanti, dopo che l’ho raccontata io l’anno scorso, il giorno di Pasqua, proprio qui in questo giornale. Vivo detenuto nel carcere di Padova e all’inizio di questa Quaresima don Marco, il nostro cappellano, mi ha fatto un pensiero: mi ha regalato I promessi sposi.
Ti confesso che, all’inizio, non mi è parso un granché come regalo: purtroppo è un libro che, per chi è andato a scuola, si porta cucita addosso l’infame reputazione di essere alquanto noioso. L’ho ringraziato del regalo, ovviamente, ma ho pensato che sarebbe rimasto per molto tempo accatastato, nella mia cella, assieme a tutti quei libri che un giorno, forse, leggerò. Poi ho sbirciato la dedica che mi aveva scritto: “Caro Jacopo, ci sono due amici che ti stanno aspettando dentro: l’Innominato e fra Cristoforo. Leggi la loro storia con attenzione, e fai moltissima attenzione: tu li leggi, ma loro ti leggeranno fino a farti piangere”. Fare piangere uno come me? Più per amicizia che per diletto, ho aperto quel libro noioso. E ho cominciato a leggerlo.
Ammetto che, pur non avendolo mai fatto prima, qualche personaggio già lo conoscevo: Renzo e Lucia, ovviamente, anche l’Innominato e don Rodrigo. Di te non avevo mai sentito parlare, però. Così, spinto dalla curiosità, ho iniziato a leggere e, pagina dopo pagina, ho iniziato a conoscere un mondo per me tutto nuovo, fatto di luoghi, avventure, personaggi che a me erano sconosciuti. Tra tutti, però, un personaggio mi ha coinvolto: indovina chi? Tu, fra Cristoforo. Ti dirò di più, che quella dedica diceva la verità: ho stra-pianto leggendo la tua storia perché, per la prima volta, mi sono ritrovato a rivivere in un personaggio della letteratura.
Sai, in vita mia ho letto molti libri, ma non mi era mai capitato di imbattermi in un libro che parlasse così spudoratamente di me come I promessi sposi. È capitato che certe sere – non ridere, ti prego! – mi voltassi per guardare dove si fosse nascosto Alessandro Manzoni nella mia cella: sembrava che mi stesse guardando e, guardandomi, stesse scrivendo di me in diretta.
Caro frate, anch’io come te, per orgoglio, ho ucciso. Sono condannato per il reato di omicidio: ho ucciso un ragazzo della mia età. Quest’anno, chissà perché, Pasqua cade il 21 aprile: in questo giorno, benedetto-maledetto, ricorre anche il decimo anniversario del gesto che ho compiuto: dieci anni dalla morte di quel ragazzo. Oggi è Pasqua e dovrebbe essere un giorno di festa, anche di risurrezione: è il giorno in cui Gesù Cristo muore e risorge per salvarci. Per me, purtroppo, oggi nel mio cuore non c’è gioia piena ma solo tantissimo dolore. Lo stesso tormento che anche tu hai sopportato dal giorno in cui hai tolto la vita.
A differenza tua, però, io non mi sono pentito subito per aver ucciso: per tanti anni mi sono rifugiato dietro a delle scuse, mi son dato delle giustificazioni banali che mi permettessero di stare in pace con me stesso. Giustificazioni alle quali tu, per trent’anni, non hai mai creduto, ceduto.
Da un po’ di tempo, però, grazie alla misericordia di Dio (tu la chiameresti, forse, Provvidenza) ho capito che non ci possono essere scuse quando togliamo la vita ad una persona. Dal momento in cui ho capito questo, la mia vita ha iniziato a cambiare, in meglio: oggi, come è accaduto al cieco di Gerico, non sono più un accecato cronico, sto iniziando finalmente a vedere. A vederci meglio anche dentro l’abisso del cuore.
Non ti nascondo che ci sono giorni in cui il senso di colpa è così forte che mi attanaglia l’anima, o quel poco che ormai resta della mia anima: sono momenti difficili nei quali il tracollo è dietro l’angolo. Così mi affido a Dio, ma da oggi so che anche tu mi sei vicino, così nei momenti bui verrò a ritrovarti nelle pagine de I promessi sposi. Un passaggio mi è rimasto impresso così tanto da averlo imparato a memoria senza accorgermene. È nell’ultima pagina, quando Manzoni scrive: “I guai, quando vengono per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce e li rende utili per una vita migliore”. Ci sono giorni in cui mi chiedo se, a causa delle mie azioni e del dolore che ho recato, io meriti ancora di vivere. Oggi, grazie anche a te, ho capito che devo riscattare quella vita che, senza averne il diritto, ho strappato. Se non lo facessi sarebbe come continuare ad uccidere di nuovo, sarebbe una morte senza risurrezione.
Caro amico frate, non ti voglio rubare altro tempo. A Renzo hai detto: “Credi pure ch’io sento quello che passa nel tuo cuore”. Dunque sei capace di sentire ciò che passa nel cuore di chi ha ucciso, di chi fatica a perdonare. Allora vorrei chiederti un piacere: che tu pregassi ancora di più di quel che già preghi. Non tanto per me, neanche perché io ritrovi pace: prega anche tu, assieme con me, perché trovi pace la famiglia del ragazzo che ho ucciso e che, magari, un giorno possa trovare la forza di perdonarmi, come tu sei stato perdonato quella volta.
Grazie per avermi fatto dono della tua storia: senza volerlo abbiamo percorso assieme tutta la Quaresima di quest’anno. La tua storia – è anche la mia storia – la porterò sempre nel mio cuore. Ora e per sempre.
Il tuo amico Jacopo