In un recente editoriale apparso sul Washington Post, Mark Zuckerberg ha invocato regole chiare e trasparenti da parte del legislatore (si potrebbe dire “universale”, benché si riferisca principalmente agli Usa) per tutelare la privacy degli utenti, sul modello del regolamento europeo (General data protection Regulation), entrato in vigore nel maggio 2018. Debbo dire che la cosa mi ha incuriosito, soprattutto se paragonata ai tradizionali post di inizio anno: solo due anni fa, ad esempio, sotto la semplice domanda “are we building the warld we all wont?” serpeggiava l’idea di un percorso per arrivare a rendere la comunità social davvero libera e indipendente da ogni sovranismo esteriore, una specie di cosmopolitismo virtuale.



Che cosa ha indotto il fondatore del più potente social media a questo cambio di rotta più o meno improvviso? Certamente lo scandalo suscitato dalla vicenda di Cambridge Analitics e l’accusa di interferenza nelle elezioni americane ha avuto il suo peso; tuttavia, a mio avviso, il vero problema è più profondo ed è legato alla diffusione dei big data.



Antonello Soro, Presidente del Garante per la Protezione dei Dati Personali, in un suo intervento su GARR NEWS nel luglio 2018, ha ricordato le parole di Angela Merkel al World Economic Forum di Davos dello scorso anno: il possesso dei big data segnerà le sorti della democrazia, della partecipazione e della prosperità economica. L’utilizzo dei big data ha effetti dirompenti, dovuti essenzialmente all’incremento esponenziale delle informazioni trattate, compendiate nella regola delle “3v”: “volume” (eterogeneità delle fonti di provenienza), “velocità” (tempestività nell’analisi e nella gestione di ingenti quantitativi di dati), “varietà” (diversità dei formati, numerici, testuali, ecc.).



Tutto ciò porta a un’incredibile estensione del campo visivo dell’uomo, inteso sia in senso oggettivo, come realtà osservata, sia in senso soggettivo, come dilatazione della conoscenza. I modelli ermeneutici e predittivi di fenomeni e comportamenti umani, che i big data consentono di sviluppare, possono essere utilizzati per scopi sociali e commerciali, attribuendo ai dati un valore inestimabile: a buon diritto, sono stati definiti la materia prima dell’era digitale, come il petrolio lo è per l’economia tradizionale, senza il rischio di esaurimento delle scorte cui è sottoposto quest’ultimo: se il petrolio ha richiesto – e richiederebbe – migliaia di anni per formarsi o riformarsi, i big data tendono continuamente a rigenerarsi mentre li si usa, come un fiume che si ingrossa via via che scorre verso la foce.

Per rendersene conto, basta pensare a semplici atti che di fatto caratterizzano la nostra vita quotidiana: spostarsi attraverso una città, concludere transazioni commerciali, cercare un ristorante dove cenare, ecc., usando uno smartphone, porta milioni di individui a lasciare milioni di tracce, per così dire, invisibili, segno di idee, gusti, interessi personali che, decifrati, possono essere decostruiti e ricostruiti in vario modo, come, ad esempio, può avvenire incrociando i dati di pagamento delle transazioni on line con i beni di consumo acquistati, in luoghi specifici dove si è passati e così via.

Diventa possibile orientare scelte e comportamenti, prevederli come gli eventi atmosferici, in modo sempre più decentrato dal potere decisionale della persona, normalmente non del tutto consapevole: “La quasi generalità dei servizi della società dell’informazione apparentemente gratuiti – prosegue Soro – sono in realtà pagati da ciascun utente al prezzo – nient’affatto modico – dei propri dati personali, sfruttati dalle aziende per costruire profili di consumatori, indirizzarne le scelte, costruire bisogni del tutto indotti e plasmare così i comportamenti delle persone. Torna, invertito, lo schema gramsciano dell’egemonia sovrastrutturale, che per il capitalismo del digitale risiede nella capacità di orientare scelte e comportamenti con la persuasione permanente. Del resto, quando l’offerta è senza corrispettivo, il prezzo, o meglio il prodotto venduto sei tu: così Andrew Lewis descrive efficacemente la dinamica dell’economia digitale, ove i dati – molto più del bitcoin – sono divenuti la valuta con cui si acquistano beni e servizi al prezzo di frammenti più o meno importanti della nostra libertà”.

È facile capire quanto sia pericoloso l’accentramento della disponibilità dei big data nelle mani di poche aziende, che acquisirebbero così un potere assoluto, economico e culturale, potendo delegare la capacità decisionale ad algoritmi che calcolano le azioni da intraprendere, sul piano individuale, sociale e politico. Da qui l’esigenza, consapevole o meno, palesata da Zuckerberg di interventi regolatori intorno alle quattro aree su cui devono essere pensate ed emanate regole comuni dai vari Governi: smascherare e ridurre contenuti pericolosi, impedire interferenze nei processi elettorali, garantire la tutela della privacy e la portabilità dei dati.

In conclusione, sembra che per la prima volta ci si renda conto di qualcosa che può sfuggire di mano, perdere ogni controllo e finire in un nuovo totalitarismo, che svela l’altra faccia della medaglia, ben riassunta ancora da Soro nell’intervento alla giornata europea della protezione dei dati personali 2019: “La rete, come ogni sistema relazionale, rischia di determinare in forme nuove quelle asimmetrie – anzitutto di potere – da cui aveva promesso di liberarci e il digitale, per sua stessa natura privo di confini, diviene esso stesso confine, sempre più poroso, del nostro essere persone, segnando il limite che separa la libertà dal determinismo”.