Sono uscite le motivazioni della ordinanza-sentenza del 23 ottobre scorso della Consulta in merito al caso di Dj Fabo e il presunto aiuto al suicidio autodenunciato da Marco Cappato: la Corte Costituzionale aveva deciso di prorogare di un anno la decisione finale dopo l’appello del Tribunale di Milano, chiedendo una legge sul fine vita al Parlamento affinché «la politica affronti il tema cruciale dell’aiuto al suicidio e il sostegno ai malati terminali». Di per sé, non è contrario alla Costituzione il divieto, sanzionato dal codice penale, di aiuto al suicidio: tuttavia, «occorre considerare specifiche situazioni, inimmaginabili all’epoca in cui la norma incriminatrice fu introdotta, ma portate sotto la sua sfera applicativa dagli sviluppi della scienza medica e tecnologia, spesso capaci di strappare alla morte pazienti in condizioni estremamente compromesse, ma non di restituire loro una sufficienza di funzioni vitali», scrive la Consulta nelle motivazioni inviate al legislatore sul caso Dj Fabo. Ricordiamo come la Corte di Assise di Milano, nel processo a Marco Cappato, aveva messo in dubbio la costituzionalità dell’articolo 580 del codice penale che parla di istigazione al suicidio, per l’appunto il divieto all’aiuto in qualsiasi caso e modo al suicidio di una persona sofferente.



LE SENTENZE E IL “DIRITTO ALLA VITA”

La Consulta di fatto non condivide la tesi degli avvocati di Marco Cappato e della stessa Corte di Assise di Milano, considerano a pieno titolo costituzionale l’articolo 580: «il divieto di suicidio ha ragione d’essere ha una sua ragion d’essere soprattutto nei confronti delle persone vulnerabili, che potrebbero essere facilmente indotte a concludere prematuramente la loro vita, qualora l’ordinamento consentisse a chiunque di cooperare anche soltanto all’esecuzione di una loro scelta suicida, magari per ragioni di personale tornaconto». Al netto di questa decisione netta, che va nella direzione di quanto già di recente la Corte di Cassazione ha sentenziato in un caso “simile” – «nessuna attenuante a chi uccide un malato per pietà», qui i dettagli – le motivazioni della Consulta aprono ad un intervento dello Stato per normare al meglio l’intera vicenda.



“APERTURA” ALL’EUTANASIA?

«Non si può non tener conto di specifiche situazioni, inimmaginabili all’epoca in cui la norma fu introdotta. Il riferimento – scrive ancora la Corte Costituzionale – è, più in particolare, alle ipotesi in cui il soggetto agevolato si identifichi in una persona (a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli». La Consulta parla espressamente di «ipotesi nelle quali l’assistenza di terzi nel porre fine alla sua vita può presentarsi al malato come l’unica via d’uscita per sottrarsi, nel rispetto del proprio concetto di dignità della persona, a un mantenimento artificiale in vita non più voluto e che egli ha il diritto di rifiutare». Il punto è complesso e il rischio di scambiare l’intera vicenda come un anticipo di eutanasia è concreto, come del resto voluto dallo stesso Cappato e dai Radicali: non resta che capire come e in che modo il Parlamento in un anno possa arrivare ad un accordo che mantenga il diritto assoluto alla vita e nello stesso tempo preveda delle “differenziazioni” come richiesto dalla Consulta stessa.

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