Modena. Arriva un momento in cui ogni parola sembra inutile, e così fragile da sgretolarsi più velocemente dei mattoni che sono franati in mezzo all’argilla dell’Emilia, terra alla terra, polvere alla polvere, che ingoia vite e i contorni normali di un’esistenza che fino a ieri scorreva tranquilla e senza troppi sussulti, nonostante la crisi. Questa mattina, quando il mondo è di nuovo cambiato, mi sono trovata sotto la cattedra di una scuola del centro di Modena, a stringere dal pavimento il braccio del bambino che si trovava più vicino a me, e che tremava, mentre gli altri mi chiamavano e io non potevo che dire loro: state tranquilli, e chi può, chi sa, preghi il suo Dio, nella sua lingua. Venti secondi sono un soffio, ma possono diventare un’eternità. Qualcuno piange, ma escono tutti dietro a me. Ci si aggrappa a poche cose certe, all’altro che si ha a fianco. In mezzo al giardino, tra gli alberi, coi genitori che alla spicciolata arrivavano, le facce terree che cercano l’unica cosa rimasta salda nel terremoto: le facce dei loro figli. Più tardi uscirò per le strade del quartiere, a cercare la mamma africana dell’ultimo dei miei alunni rimasto a scuola, una giovane terrorizzata con la figlia minore ancora nella carrozzina, seduta in fila con altre dieci come lei su un muretto bordato di tre alberi, con gli occhi sbarrati. Non riusciva a venire a vedere cosa succedesse. Capiamo subito che la scossa è stata grossa, le linee sono in tilt. Gli amici che vedono i tg dalle altre città, e sanno più di noi, ci cercano in continuazione, ma filtra solo un sms ogni tanto. Mi ronza in testa una frase che spesso mi sono riletta negli scorsi mesi: “Questo è il tempo della persona”. Lo capiscono, confusamente, anche tutti questi che mi circondano, alcuni terrorizzati, altri no, che cercano un riconoscimento umano l’uno negli occhi dell’altro. Gabriele, il papà di una mia alunna, corre a vedere la figlia, poi me la lascia e scappa via: lavora all’elisoccorso del Policlinico, è caduto un pezzo dell’ospedale di Carpi, bisogna andare. I parchi pubblici della città ospitano quelli che non sanno dove andare, prima che scenda la notte e si decida se rientrare in casa o, per la troppa paura, dormire in macchina. Molti, tutti quelli che possono, partono. I giardini dei condomini diventano, grazie alla bella giornata di sole, un posto in cui non ci si sente soli, e i bambini possono giocare mentre i grandi cercano di capire. Ma in questa storia non c’è niente che si possa capire con le categorie solite, bisogna fare un salto di conoscenza, nonostante la paura. Capiamo che anche stare insieme, organizzarci per la notte non basta. C’è un passo più a fondo da fare. Dov’è che poggia la vita? C’è qualcosa che non trema, se anche trema la terra? Un messaggio dagli amici de L’Aquila, conosciuti in circostanze simili e opposte, due anni fa: siamo con voi, diciamo il rosario per voi. Siamo la stessa carne, siamo lo stesso corpo e quando una parte soffre soffre tutto il corpo. Non ci basta la devozione, davanti agli amici in lacrime che ci dicono che il loro paese a 20 chilometri da qui non c’è quasi più, davanti ai materassi spostati al piano terra per poter scappare subito nella notte.
C’è la notte, sì, ma c’è anche la speranza, la piccola Speranza di Péguy. La speranza che la notte, le macerie non siano tutto. Quello che viene dopo è retorica, e contabilità del disastro. “In luoghi abbandonati costruiremo con nuovi mattoni”, dice T.S. Eliot. Ma il primo mattone da ricostruire siamo noi, e quella domanda a cui uno deve rispondere, e che mettiamo di fronte a tutti, non solo a noi che vegliamo nella notte per non svegliarci con le scosse: c’è qualcosa, nella vita, che non trema?
(Mariadonata Villa)