Il cielo è grigio, nell’estate gialla, quando partiamo per Rovereto. Un paese minuscolo, di cui adesso molti ripetono il nome. Andiamo incontro al Papa che viene tra le macerie; più siamo vicini, più aumentano i segni della distruzione. Ma c’è anche un fiorire di gru, tra i capannoni, che dicono della fretta della nostra terra di voler ricostruire; e ci sono i campi pronti per la mietitura, che qui e là è già iniziata. In questi giorni il vescovo di Carpi, monsignor Cavina, che si è trovato in pochi mesi pastore di una Chiesa senza chiese (solo tre in tutta la diocesi sono agibili), ha espresso il desiderio che la visita di Benedetto XVI non sia dettata dal protocollo, ma dal nostro desiderio di figli che attendono un padre amatissimo. Per questo si è battuto perché il Papa potesse incontrare la sua gente, piuttosto che le cariche pubbliche. Sulle navette dal parcheggio agli impianti sportivi riconosco alcuni importanti politici locali di vari partiti, in giacca e cravatta, ma venuti in forma privata. Capitano accanto a una signora che porta una statua di gesso di una Madonna della pace di Carpi. 



C’è una grande gioia e anche una grande compostezza nelle facce delle persone che si avvicinano alle transenne. Tutti hanno qualcosa da raccontarsi, un loro personale racconto dal terremoto; ma soprattutto, sono tutti venuti lì a cercare l’unica cosa della vita che non vacilla. Arriva il Papa; vicinissimo a noi, alla gente. Siamo a poche decine di metri dal piccolo gazebo. Il cielo nel frattempo si è fatto azzurro, di quell’azzurro denso della campagna padana quando arriva l’estate. Prima un saluto di Vasco Errani, presidente della regione Emilia-Romagna, che ricorda come siano la fede e la tenacia di questa gente, che ha bisogno di vicinanza anche quando passerà l’emergenza, ad alimentare il motore della ricostruzione già partita. Il cardinale Caffarra  dice che le persone sono  venute qui, anche se è terremotato ciò che hanno di più caro, le case, le chiese, i posti di lavoro, a stringersi intorno al Papa. Cita le parole del don Camillo di Guareschi, scritte dopo la grande alluvione: «Le acque escono tumultuose dal letto dei fiumi e tutto travolgono. Ma un giorno esse ritorneranno, placate, nel loro alveo, e ritornerà a splendere il sole. E se alla fine voi avrete perso ogni cosa, sarete ancora ricchi se non avrete persa la fede». Racconta di un bambino che gli ha detto che le case e le chiese sono piene di crepe, ma il cuore no.



Poi parla Benedetto. E parla così, come uno di famiglia, che fa il cammino con noi. Dice di come sia stato faticoso, per lui, non potersi fermare quando è andato a Milano per la Festa delle Famiglie. Ritornano alla mente le parole che ha detto in quell’occasione alla Scala, facendo memoria, nel cuore della grande mondanità, delle nostre terre martoriate. E poi, sorprendentemente, parla dei Salmi. E di come, dopo 61 anni in cui ha letto nel breviario le parole del Salmo 46 (Dio è per noi rifugio e fortezza, / aiuto infallibile si è mostrato nelle angosce. / Perciò non temiamo se trema la terra, / se vacillano i monti nel fondo del mare), oggi esse raccontino con sorprendente attualità la nostra esperienza presente. Soprattutto, al di là della paura, raccontano della certezza che Dio si fa vicino, come è certo un bambino della presenza del papà e della mamma. Le sue parole fanno eco a quelle di monsignor Cavina di qualche giorno fa, e ci additano una ben più grande paternità. 



Adesso incontra davvero la gente gente. Vigili urbani e del fuoco, cui molto è stato chiesto in questo mese. Famiglie che hanno perso la loro casa, tra cui Fausto e Rosa, altri amici di Rovereto, Morena che tiene in braccio il piccolo Gabriele. Le transenne si aprono, in un grande abbraccio che ci scambiamo, nella certezza che non siamo, e non saremo – ce lo promette lui – soli. E’ vero quello che ha appena detto, che la sua presenza vuole essere un piccolo segno di amore e di speranza. Che è la cosa di cui più c’è bisogno, in fondo al cuore.

Siamo a tre metri da Pietro. Non lo tocchiamo, ma siamo lì, come figli davanti al padre. Come desiderava monsignor Cavina. Il Papa riparte, e noi restiamo. Più delle parole, è il suo essere qui segno in mezzo a noi che ce lo rende caro. Al di là di tutti i prima e i dopo che abbiamo sentito ripetere da giornali e tv. Al ritorno ci accompagnano ancora i campi di grano. Non è finita per la Bassa. Qui è tutto un brulicare di vita.

(Mariadonata Villa) 

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