Modena, sabato mattina. Partiamo con due macchine dalla stazione. Matteo, ricercatore della facoltà di Architettura di Cesena, che vive nella Bassa modenese colpita al cuore, aspetta un grande fotografo e una professoressa tedesca di Architettura, che vogliono documentare le profonde ferite della nostra terra, creare una memoria, per cercare di salvare i luoghi, oltre alle persone.Abbiamo già visto alla tv quello che ci aspetta, ma appena arriviamo sul posto capiamo che non eravamo pronti. Prima fermata, San Giacomo Roncole. Per arrivarci passiamo dalla Menù, una delle aziende più grandi della zona, leader nel settore alimentare per la ristorazione.
Tre enormi gru puntellano il fianco dell’edificio, e una quarta tenta di raggiungere i milioni di euro di prodotto che era già pronto per essere spedito. I loro clienti nel mondo non li aspetteranno perché sono terremotati. Se i carichi non partono, è la fine, una seconda volta. A San Giacomo, di fronte alla chiesa crollata, una targa ricorda don Zeno Saltini, il fondatore di Nomadelfia, che da lì partì a ricostruire, e a raccogliere gli orfani nell’immediato dopoguerra. Ci dirigiamo in direzione di Mirandola. Un’antica casa colonica lungo la strada si è sgretolata. Matteo commenta con gli occhi velati: quante volte sono passato da qui, da questa che era una delle mie preferite, e ho pensato: domani mi fermo e la fotografo. Già, ma qui il domani non esiste. Esiste solo un oggi terribile nella sua crudezza, e che stride profondamente coi campi di grano, che dal verde cominciano a virare al giallo. La campagna ci scuote. Sotto la casa, un rimorchio del trattore è pieno dei mattoni che l’hanno travolto nella scossa. Poche centinaia di metri più avanti, un oratorio sbriciolato. Vediamo l’abside dal tetto crollato.
Il campanile è su, ma sulla strada c’è tutto il resto. Parlando con gli abitanti del posto, che stanno facendo i bagagli per andarsene, scopriamo che prima del secondo terremoto quasi tutti gli edifici avevano lesioni, ma non erano ancora collassati. Arriviamo a Mirandola. Riusciamo a farci dare quattro caschetti e il permesso di ingresso nella zona rossa. Ci accompagnano i vigili del fuoco, disponibili e cordiali. C’è una fraternità immediata, al di là delle transenne di ferro, nel cuore deserto della città. La piazza, il salotto buono dei Pico, è surreale. Penso a Eliot, ai suoi luoghi desolati. E a Ungaretti che nei suoi versi dalla guerra dice “è il mio cuore il paese più ferito”. Sembra di essere in guerra, in effetti. San Francesco è una grande balena vuota, i candelabri a forma di croce si vedono dal fianco caduto. Un colpo di lancia nel costato. Scambiamo parole, perché il silenzio sarebbe intollerabile. Giovanni, vigile del fuoco pratese che studia architettura, ci segna a dito gli edifici apparentemente intatti. Dentro, ci dice, è tutto collassato. Lui, che era anche a L’Aquila, ci dice che qui l’esterno inganna, ma la sostanza è la stessa. Passiamo davanti al municipio.
C’è un bar nella piazzetta, con delle brutte tovaglie blu sui tavolini. Una tazzina di caffè è ancora appoggiata, rovesciata, alla Gazzetta di Modena di martedì 29 maggio. Ci fermiamo, in quattro che siamo. Sembriamo gli archeologi che scoprono il pane sulle tavole di Pompei. Ma sono solo quattro giorni. Mentre ci spingono qua e là, con una sbrigativa premura per noi, che passiamo ignari per vicoli pericolanti (ruvidezza di cui si scusano, e che ci commuove), ci raccontano che la mattina di martedì erano a togliere i corpi degli operai dalle fabbriche crollate. Al sagrato del Duomo, che è spezzato in due, con l’orologio sfracellato sulla piazza, uno dice: voglio tornare tra dieci anni, per rivedere com’è questo posto. Funzionari della Soprintendenza, ci dicono, sono passati commentando: ah ma la parte importante, quella antica, è solo una certa porzione del Duomo. Come se di un corpo si potesse dire che è più importante salvare una gamba che non il braccio o il busto. Abbiamo una grande responsabilità nel vedere e nel sentire queste cose, per il solo fatto di essere qui. I vigili ci salutano dicendo: è importante quello che fate, non lasciate sola questa gente dal cuore grande. All’uscita dalla zona rossa, troviamo la Madonna della Porta. La statua bianca è crollata dalla facciata della chiesa a lei dedicata, e così l’hanno legata ad un albero, a guardare la sua casa. Resta lì, a custodire la città deserta, tra le bottiglie di plastica tagliate e piene di rose che le hanno sistemato tutt’attorno.
Concordia; davanti al cancello del cimitero crollato un papà della Bassa, in tuta blu da operaio, si mette in spalla la figlioletta dai lineamenti africani, probabilmente adottata: “Saluta il nonno. Lui è lì al sicuro, nella terra. Mandagli un bacio”. Una mano gentile ha infilato un fiorellino bianco nel cancello semiaperto, sbarrato dai detriti. A San Possidonio, oltre all’elegante facciata bianca, è giù anche il campanile, il sagrato è tutto un grumo di macerie.
Qualcuno ha raddrizzato la croce di ferro caduta e l’ha appoggiata all’inferriata. A Fossa il campanile regge, ma è spezzato in tre punti, mentre il transetto del Quattrocento è giù. La chiesa è dedicata a san Pietro. Su questa pietra edificherò la mia chiesa. E’ difficile dirselo dopo tanta distruzione. Ultime macerie a Disvetro, frazione Cavezzo.
Torniamo a Modena. Sembra di essere usciti da un film. Galleggiamo nell’irrealtà della città che, dopo la paura, ha fretta di dimenticare. Questa è la fine nella fine: la dimenticanza. Gli uomini perdono la memoria velocemente. Mentre noi abbiamo bisogno di fare memoria. Ad esempio, di fronte alle macerie, abbiamo bisogno di ricordarci che il profumo dei tigli che avvolge le piazze deserte è reale quanto i crolli. Il dramma è parte della vita, sembra quasi inghiottirla. Ma il profumo dei tigli, con la sua ostinazione, tiene lontani i confini della notte.
(Mariadonata Villa)
Mirandola, foto di Mariadonata Villa
Mirandola, foto di Mariadonata Villa
Mirandola, foto di Mariadonata Villa
Mirandola, foto di Mariadonata Villa