Gli indizi per lui sono pesantissimi. Primo fra tutti, il Dna che coincide inesorabilmente. È lo stesso, identico, dello stupratore di tre donne romane. Certo, lui, Luca Bianchini, 33 anni, ragioniere e attivista del Partito democratico (da cui è stato espulso subito dopo l’arresto), si è dichiarato innocente. È in isolamento in una cella del carcere di Regina Coeli.

Per lui nel Partito Democratico nazionale si è sollevata una polemica violenta, su una presunta questione morale. Ma se lui dovesse essere riconosciuto colpevole, andrebbe subito detto che ci troviamo di fronte ad un uomo davvero dalla doppia personalità. La polemica politica dello spregiudicato Ignazio Marino la dice lunga sulle difficoltà del partito di Franceschini, ma non dice invece niente sulla storia del presunto stupratore seriale di Roma. Semmai ci porta lontano.

Nel senso che la polemica stessa implica che i comportamenti di Bianchini fossero palesemente immorali o pubblicamente scorretti. Non pare invece che sia stato così. Come spiega benissimo il mio amico criminologo Massimo Picozzi (di cui Bianchini aveva fra l’altro un testo sul comodino) è accertato che il profilo di queste persone spesso è proprio quello della doppia vita. Il loro dramma, perché anche per loro di dramma si tratta, è complesso e profondo.

Studiando il caso di Bianchini, anzi, colpisce proprio il precedente: siamo nel 1996 e il ventenne Luca cerca di stuprare una vicina di casa. Lei riesce ad evitare il peggio, anche grazie all’aiuto del figlioletto di 10 anni. Il Giudice però assolve Bianchini perché incapace di intendere e di volere, in quel momento. E non ravvede in lui segni di pericolosità sociale.

È questo il vero scandalo del caso Bianchini. Un magistrato, sbagliando, rimette in circolazione un soggetto che poi, se sarà giudicato colpevole, si scoprirà avere stuprato almeno altre 18 donne. A quel giudice nessuno potrà chiedere conto di quella decisione. Non avrà conseguenze civili, penali ma neanche di carriera o di stipendio. È questo quello che angoscia. Alla società non è stato neanche segnalato il rischio possibile di una recidiva. A nessun servizio sociale o psicologo di base è stata segnalata la possibilità del ripetersi di atti simili.

La patologia individuale di Bianchini si è incontrata con la patologia di una società che non sa difendersi, non sa giudicare, non sa essere giusta con se stessa e alla fine si smarrisce. Nel Duemila un presunto colpevole di stupro ha il diritto di essere trattato come un malato e non messo in libertà senza problemi, pronto a ricostruirsi la sua (doppia) vita, a discapito di tante povere vittime. Se c’è una questione politica e morale è a questo livello e i partiti dovrebbero davvero farsene carico, non certo pensando alla castrazione chimica, che comunque una soluzione è.

Non analizziamo invece, per carità di patria, che cosa sarebbe accaduto se Bianchini fosse stato coordinatore di un circolo del Popolo della Libertà invece che del Partito Democratico. Ci avrebbero inondato di “velinismo”, modello Berlusconi, editoriali del tipo: “Da Patrizia allo stupro…” e via così. Viceversa la realtà è davvero sempre molto ironica.