Perché tanta gente è interessata all’omicidio di Sarah Scazzi? C’è da chiederselo davvero visti i numeri dell’audience televisivo. Da più di dieci giorni è come se un terremoto si fosse abbattuto sul consueto andamento degli share. E’ qualcosa di paragonabile a fatti clamorosi come l’11 settembre, lo tsunami, la guerra in Kosovo. La classe dirigente giornalistica tende a vedere la cosa con snobismo. E un po’ di fastidio.
Sembra chiedersi: perché il popolo ha tanta sete di sapere su questa vicenda di provincia, un delittaccio fra gente povera, vittima una ragazzina? La stessa televisione viene severamente giudicata da tutti, perché ne parla troppo. Come sapete, mi occupo di Cronaca da una vita e anche di Nera. Penso che solo il Fascismo e il Comunismo (nello scorso secolo) arrivarono a proibire l’informazione su omicidi, suicidi, violenze. La società perfetta voluta da quelle ideologie non ammetteva le sbavature della realtà. Il suo dolore, la sua violenza, la sua capacità di sbagliare.
Oggi per certi versi viviamo in un altro tipo di dittatura post ideologica. La dittatura del reality, cioè viviamo a Disneyland. Che simula una società “talmente perfetta” (direbbe Eliot) in cui non è tollerata la durezza della vita vera. Dunque le accuse dell’intelligentsia (di sinistra ma anche cattolica, sempre moralista) che tanto partono automaticamente in questi giorni nel nostro Paese vanno rovesciate. Quantomeno per riflettere e per non unirsi al coro della banalità invidiosa.
Avetrana non è il Grande Fratello, semmai lo disturba. Visto che comincia oggi su Canale 5. Avetrana è la realtà. Una realtà in cui c’è il tema terribile del rapporto difficile fra figli e genitori. Per cui una madre per quaranta giorni pensa che la figlia sia stata rapita da Facebook e da Internet, perché non sa niente della sua vita. Una realtà in cui emerge l’ombra lunga delle molestie sessuali in famiglia, del maschio padrone che dispone dei corpi dei nipoti. Una realtà in cui i cosiddetti soggetti educativi non esistono e i modelli per i giovani, in provincia poi, sono quelli (qui davvero) della tivù e di un mondo dorato e lontano.
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Una realtà in cui il paese attorno sprizza cattiveria e malignità e lascia sola e disperata una quindicenne nelle mani dei suoi aguzzini. Una realtà di dolore. Un abisso di colpa. Fatti che per se stessi pongono domande ultime su che cosa sia davvero poi la vita e quale sia il suo significato.
Certo, in chi guarda con tanto interesse c’è anche guardonismo e morbosità. Non c’è dubbio. Ma non è un buon motivo perché si stacchi la spina. Per noi cronisti è un’occasione importante per fare al meglio il nostro lavoro. Con rispetto, con pietas, con curiosità nei confronti di un’umanità che soffre. Ma che resta tale. Vivere una storia così come un reality (in cui lo zio e la cugina vengono “nominati” e finiscono in galera) è sbagliato. Perché queste storie vanno vissute. Tutti, in esse, almeno per un po’, ci rispecchiamo. Tutti, in esse, possiamo trovare il modo per porre le domande giuste ed arrivare al cuore della gente. Come ha fatto ieri Luca Doninelli su Avvenire.
Il male non è solo fuori di noi. Lo sappiamo bene. Sarah ce lo ricorda.