Roma ha vissuto una giornata di follia. Da un mese circa la data del 14 dicembre era stata caricata di significati finali, palingenetici, presentata come un momento di soluzioni irrevocabili.

“Il giorno del giudizio”, come ha titolato un autorevole telegiornale, in effetti aveva scatenato molte aspettative. Sulla sfiducia chiesta anzitutto da Gianfranco Fini al governo Berlusconi contava una gran fetta dell’opinione pubblica, che viveva la giornata di ieri come un nuovo 25 luglio. Il “B-Day”.



Invece, alla fine, la morte violenta e finale del Governo Berlusconi non c’è stata. Soprattutto non esiste oggi un’alternativa possibile e attuale al Cavaliere nei voti della Camera e del Senato. La piazza si è contrapposta al Palazzo e le tante manifestazioni pacifiche confluite sulla Capitale sono sfociate in disordini pesantissimi.



A Roma i cortei si sono trasformati, soprattutto dopo la mancata caduta dell’esecutivo, in attacchi violenti alle sedi delle istituzioni (persino contro la Protezione civile) e alle forze dell’ordine con l’arrivo di gruppi di black bloc che al loro passaggio hanno fracassato vetrine e vetri blindati delle banche, divelto segnali stradali, creato barricate e incendiato un blindato della Polizia, auto e moto. Il bilancio è orribile: 41 fermati, accuse di violenza e devastazione; una sessantina i feriti tra i manifestanti e 57 tra le forze dell’ordine. Un’aggressività estrema figlia di un momento teso e complicato, segnato da una politica per mesi molto conflittuale.



Il ministro degli Interni Maroni ha spiegato che era necessario creare un cordone sanitario attorno al centro della città, la cosiddetta "zona rossa". Decisione che è stata vista invece quasi come una provocazione da alcuni esponenti dell’opposizione. La disputa preoccupa perché neanche di fronte a tanta violenza, la sinistra d’opposizione ha un sentire comune con gli altri partiti democratici. La protesta è segno di libertà, ma fracassare bancomat e vetrine, cercare di disamare i poliziotti, mettersi i caschi e tirare bombe carta è un’altra cosa. E l’opposizione parlamentare dovrebbe non lasciare più ambiguità su questo terreno.

Gli animi, certo, sono esasperati sia per ragioni sociali, del tutto evidenti, che per ragioni politiche, come se la macchina del fango avesse prodotto conseguenze inevitabili e ormai definitive. Già i dati dell’ascolto televisivo di quest’autunno facevano affiorare la voglia di contrapposizione, anche molto dura, e la voglia di sangue.  In più la mancanza della sinistra estrema nel Parlamento italiano rappresenta una grande debolezza del sistema politico attuale. Senza Rifondazione, o il Sel, o i comunisti italiani, non c’è più quel tipo di rappresentanza che in fondo garantiva una "costituzionalizzazione" di alcuni gruppi, limitava ad un sano realismo altri, portava certe contestazioni e sensibilità di fronte al Governo.

Contrapporre invece oggi la piazza al Palazzo, l’una libera e democratica, e l’altro perso nei meandri della sua burocrazia autoreferenziale, è molto pericoloso. Lo dovrebbe sapere una cultura di sinistra che accusa ogni giorno Berlusconi di essere un despota, un dittatore, un Noriega e che poi gli lascia tranquillamente lo spazio. I black bloc non esistono se non come riferimento ideale dei più esasperati fra i nostri giovani.

Detto questo, così come popolo non vuole dire populismo, piazza non significa per forza avere ragione, ma semmai saper dar conto di alcune posizioni.