Queste righe sono per un grande uomo, che è stato anche uno straordinario ciclista e a cui diamo l’addio in queste ore. Si chiamava Giancarlo Astrua, forse i più giovani non conoscono il suo nome ma era un grande sportivo del tempo di Coppi e Bartali. Ha vinto anche arrivando secondo o terzo, in un’epoca in cui i primi erano loro. La sua fama era quella di passista scalatore. Forse la specialità più autentica del ciclismo, che in quegli anni era ancora certo il più bello ed eroico degli sport. Non rovinato dal doping, non sporcato dagli scandali. Nel ’49 Astrua fu quinto al Giro. Nel ’51 vinse la cronometro Rimini – San Marino su Coppi e fu maglia rosa per un giorno. Arrivò primo, proprio con Defilippis, appena scomparso anche lui, al Trofeo Baracchi.
Nel ’53 chiuse terzo al Tour de France e partecipò al campionato del mondo di Lugano. Ha vinto tre tappe al Giro d’Italia e una alla Vuelta, la classica spagnola. Mi reputo fortunato di essere diventato amico di suo figlio, casualmente mio compagno di banco di IV Ginnasio all’Alfieri di Torino. E di averlo conosciuto in quegli anni. Biellese diventato torinese. La sua grinta e la sua umiltà erano ancora vive, anche dopo aver appeso al chiodo le scarpette da gara, quando vendeva articoli sportivi nel bel negozio davanti allo Stadio Comunale.
Grinta e umiltà del ciclista, entusiasmo e capacità di sacrificio dell’uomo erano le facce della stessa personalità. Ricordo con nostalgia certe iniziative in bicicletta a Torino, aperte da lui in occasione di qualche Festa dei Giovani, organizzata dai Cattolici Popolari. Adesso, da padre, capisco con più cognizione, quanto in quel generoso coinvolgimento nelle attività dei figli non ci fosse solo affetto, ma l’imprevista e soddisfacente possibilità di imparare da loro. E rimpiango i suoi meravigliosi racconti di sport, fatti di salite, di curve, di discese pazze… Giancarlo Astrua conosceva l’Italia delle strade statali, dei passi, delle arrampicate. E anche delle fontanelle sul ciglio della strada in cui si poteva riempire la borraccia.
Ecco per loro, per quella generazione lì, lo sport era davvero un modo di vivere, di essere pellegrini, di salire al Santuario di Oropa o di Graglia (suo vero luogo del cuore che oggi gli dà l’addio) con la stessa naturale voglia di mettere una pedalata dopo l’altra. Pronti a sorprendere la felicità di una vittoria inaspettata. Se l’attività sportiva forma uomini veri, ecco Giancarlo Astrua era uno di questi. Ed oggi lo è per i figli e i nipoti che ha lasciato. Ciao campione, che l’ultima salita, quella verso la luce, ti sia più leggera che mai.