Tante volte i giornalisti, noi giornalisti, usiamo la semplificazione e scriviamo: Meeting di Cl. Ma sono molte le cose a Rimini che non c’entrano con Comunione e Liberazione e tuttavia sono testimonianza di storie e valori di un Cristianesimo vissuto. E per fortuna, verrebbe da dire.

Una di queste è certamente la mostra dedicata a don Carlo Gnocchi (come anche sarebbe da portare in tutte le scuole italiane quella su Don Bosco nel 150esimo dell’unità d’Italia!), proclamato recentemente Beato e vero gigante del secondo dopoguerra italiano.



La mostra al Meeting fa ripercorre passo passo la vita straordinaria di un prete partito cappellano in Russia nel 1942 con i nostri alpini e da allora diventato uno straordinario operatore di carità nei confronti degli ultimi. Ultimi che cambiano, che hanno diverse esigenze e a cui la scienza e la modernità possono dare molto.



Così prima si occupa degli alpini stessi e degli orfani che lasciano nelle loro case. Da qui i bambini rovinati dagli ordini di guerra, i mutilatini, anch’essi vittime totalmente innocenti di un conflitto che non vuole finire. Poi gli handicappati in genere, ma soprattutto i poliomielitici che a un certo punto diventano “un’ossessione”.

 

Oggi (perché la fondazione don Gnocchi è una realtà che tanti italiani conoscono) i disabili gravissimi, le persone in coma o in stato vegetativo. Tutto il suo carisma nasce dall’impatto terribile, durante la ritirata di Russia, col dolore innocente, come lui lo chiama.



 

Che senso hanno le morti di quei ragazzi? Che senso ha la sofferenza di un bambino devastato da una bomba mentre gioca? Don Carlo arriva ad una specie di fondo della questione, sente la vertigine. “Veder”, come scrive, “l’anima propria perdere mano a mano il potere di consentire al dolore, al pericolo e alla morte”. Ma durante la guerra, rischiando di morire lui stesso, percepisce che la vita gli viene “prorogata” per un compito.

 

E alla vista di un alpino morente, ha l’illuminazione che cambierà la sua vita: “La memoria esatta dell’irrevocabile incontro mi guidò d’istinto a scoprire i segni caratteristici del Cristo sotto la maschera essenziale e profonda di ogni uomo percosso e denudato dal dolore”. L’esperienza lo segna in modo definitivo. “Ora quelle promesse mi impegnano come una cambiale firmata davanti a Dio”, scrive al cardinal Schuster.

 

Don Carlo, faccia aguzza anni Cinquanta, alto coi capelli indietro, che lo fa somigliare al giovane Primo Levi, terremota Milano e la Brianza, coi suoi bambini mette a soqquadro mass media e Chiesa ambrosiana, facendosi anche rimproverare per la sua “irrequietezza”. Ma non molla, lotta come un leone per i suoi bambini, anche con un grande genio creativo. Scomoda il Quirinale e Vittorio De Sica. Si fa regalare una Vespa, organizza la prima Freccia Rossa (altro che Alta Velocità) con un motorino Guzzi da 65 cavalli che arriva fino ad Oslo, mobilita i giornali popolari.

 

 

Sempre per raccogliere i fondi. Ed è modernissimo. Ai suoi superiori scrive (la lettera è nella Mostra) che non vuole per questi bambini “ricoveri di carità”. Mitico nella sua schiettezza. Vuole solo il meglio del meglio della scienza, della chirurgia, della fisioterapia, della riabilitazione.

 

Fa giocare i mutilatini a pallone con le stampelle. Fa scrivere e leggere i ciechi. Per lui sono uomini a tutti gli effetti, non oggetti di compassione. Da morto romperà il tabù cattolico del trapianto degli organi, donando le sue cornee a due bambini ciechi, portando tutta la Chiesa sulla strada giusta. Da vivo scriverà a una sua collaboratrice che vede troppa burocrazia nelle tante opere generate, cioè “disinteresse e distacco”.

 

Mentre chiede di tornare alla poesia iniziale: “E’ una cosa che solo si spiega con la divina Provvidenza, per quanto riguarda la parte di Dio e con la nostra passione, per quanto riguarda la parte degli uomini”. Provvidenza e passione. Binomio lombardo, pratico e dunque poetico.

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