I giornalisti fanno i furbi. Parlano di “bavagli”, di libertà di stampa, di atti pubblicabili. Ma la morte improvvisa di Loris D’Ambrosio, consigliere giuridico del Quirinale, dovrebbe far riflettere tutti coloro che operano nell’informazione. D’Ambrosio è morto per i nostri peccati. Lo abbiamo ammazzato noi con i nostri articoli.
Era un magistrato integerrimo, serissimo servitore dello Stato, che aveva combattuto il terrorismo, di destra e di sinistra, lo stragismo e le trame dei servizi deviati. Era fra gli uomini di fiducia di Giovanni Falcone, quando fu poi distaccato al Ministero di Grazie e Giustizia. E tuttavia in pochi giorni è diventato una macchietta in odore di corruzione e connivenza con la mafia, a causa della pubblicazione sui giornali di alcune sue intercettazioni telefoniche, il “Guagliò”, chiamato così al telefono da Nicola Mancino, indagato e ora rinviato a giudizio per la presunta trattativa fra Stato e mafia. È bastata quella consuetudine meridionale, di nessuna importanza se fosse rimasta privata, per fare a pezzi un’intera carriera, per schiantare il suo cuore.
Il problema non sono i giudici, di cui D’Ambrosio era un fulgido esempio. Se i pm sbagliano esistono momenti di verifica e di controllo. Possono indagare tutti e ascoltare tutti mentre parlano al telefono (non il Capo dello Stato… ma questo è un altro discorso), compreso l’ex senatore e ministro Mancino, che è stato anche vice presidente del Csm. Loris D’Ambrosio è stato ascoltato dai pm di Palermo come “persona informata sui fatti”. Legittimo e forse necessario. Il “vulnus” per lui è stata però la pubblicazione delle telefonate intercettate e avute con Mancino. Il solo fatto di rispondere al telefono è stato presentato come un reato gravissimo, una colpa vergognosa. Certo, ieri Eugenio Scalfari ha scritto giustamente su Repubblica: qualcuno della Procura ha passato quelle carte ai giornali. Vero. Ma il problema, per quanto ci riguarda, è nostro. L’usciere disinvolto è sempre esistito negli uffici giudiziari. Nessuno lo ha mai perseguito. E chi dovrebbe farlo poi? Un pm? Non scherziamo.
I giornalisti, invece, che fanno? Non hanno nulla da dire sullo sputtanamento continuo delle persone, commesso con la pubblicazione di atti (anche legittimi) ma che non andrebbero destinati alla pubblicazione. Ognuno di noi dice al telefono cose che, se vedesse pubblicate, provocherebbero un trauma enorme. Lo sappiamo tutti, ma fra i giornalisti c’è la grande ipocrisia di far passare come libertà la possibilità di sputtanamento, di distruzione mediatica e quindi morale. Anche all’interno dei vari schieramenti politico editoriali.
Per un Giuliano Ferrara che si dice disgustato dello sputtanamento continuo, ci sono i Feltri e i Belpietro che pubblicano qualsiasi cosa. E anche di più. Per un Eugenio Scalfari che si batte per l’onore di D’Ambrosio e di Napolitano ci sono i Travaglio e i Santoro che sembrano sempre in un film western dove sparano rivoltellate al presunto cattivo. I giornalisti non sanno controllarsi da soli. Fanno i furbi. A volte sembrano godere profondamente nel rovinare la reputazione delle persone, anche per bene, come se fossero investiti da una missione di purificazione della società.
E allora è giusto che intervenga una legge che ponga dei limiti alla pubblicazione di conversazioni telefoniche e di dialoghi privati, anche se sono contenute in un atto giudiziario di una Procura o di un Pm. Anche se l’atto è conosciuto dalle parti. Il diritto di cronaca e di informazione non può prevaricare sui diritti della dignità della persona umana, “i diritti universali dell’uomo” come ha scritto ieri il segretario del sindacato dei giornalisti Franco Siddi, pur difendendo la corporazione. E se i giornalisti continuano a fare i furbi, a far finta di niente, dovranno comunque rispettare le leggi. Una volta approvate.