Sarà stato certamente un caso, ma nel Meeting della polemica, anche dura, fra egemonia e presenza, la mostra sui monaci del monte Koya, il Koyasan, ha rappresentato una singolare forma di coscienza. Una specie di provvidenziale rovescio della medaglia. Detto banalmente, uno spazio buddista, ad un passo dalle infuocate discussioni sulla presenza a Rimini del presidente del Consiglio Monti e dei suoi ministri.



Più profondamente e precisamente, il richiamo ad un’altra sensibilità umana, in cui la partita del rapporto con l’infinito viene giocata su un terreno diverso, sul terreno dell’osservazione della natura. Qui il rapporto col Mistero è intenso e melanconico. Come se passasse in secondo piano l’ambizione dell’azione umana e con essa, non potrebbe essere più chiaro in questo periodo, il rischio dell’egemonia. Si coglie infatti qualcosa di profondamente mite e pacificato in questo spazio, dove tutto è più attenuato ed equilibrato. Pensavo questo dopo aver parlato a lungo con Wakako Saito (il Meeting è un luogo di incontri eccezionali), la signora che invitò 25 anni fa don Luigi Giussani presso i monaci buddisti del monte Koya, e gli fece incontrare uno di loro, Shodo Habukawa.



La Mostra di Rimini è diretta conseguenza di questa straordinaria amicizia. Per tanto tempo mi sono chiesto se questi monaci buddisti giapponesi, che si erano commossi all’ascolto di quella canzone, conoscessero l’origine storica di “O Sole mio”, il capolavoro della musica napoletana che fu eseguito in quel primo incontro, 25 anni fa, secondo il racconto che avevo sentito fare molte volte. Anche dallo stesso don Giussani. Ed arrivando alla mostra, soprattutto osservando i quadri, devo dire coinvolgenti, di Shuei Matsuyama, con i suoi enigmatici orizzonti, la prima curiosità riguardava questo particolare.



Un particolare certo, ma a cui mi ero per caso dedicato dovendo occuparmi professionalmente della storia di quella canzone. Sapevano loro com’era stata la genesi di quel capolavoro? Quella era la mia prima domanda. Non ci crederete ma la signora Saito conosce benissimo la genesi fattuale, l’episodio scintilla che fece scattare la molla del capolavoro napoletano.

Una storia che pochi fra gli stessi italiani conoscono. Ed è anche in certo senso evidente perché. Per questa signora, per quei monaci, l’incontro con don Giussani è stato ed è importantissimo. E anche per loro il tempo era stato utile per chiedersi le ragioni di quell’evento così imprevedibile e misterioso. Capire che cosa li avesse messi in una relazione così profonda. Per chi non lo sappia la storia di “O Sole mio” è questa.

 

Giovanni Capurro scrisse i versi della canzone di getto, dopo aver assistito ad un’alba sul Mar Nero, in un viaggio di musicisti mentre era ad Odessa. Lontano da Napoli. Il tema della canzone, emotivamente manifesto, aveva anche un fondamento razionale! Era basato su uno sguardo alla natura, all’orizzonte, che provocava una struggente nostalgia. Vedendo i quadri del pittore Matsuyama, una linea d’orizzonte senza presenza umana, ascoltando Wakako Saito ho avuto una percezione netta del valore di quel rapporto. Come se un intero popolo, quello giapponese, nel vertice della sua posizione umana e della sua religiosità, fra i monaci buddisti, fosse, spesso, di fronte a quella siepe dell’infinito leopardiano tanto caro a don Giussani. Questo ci dice il Mistero attraverso i giapponesi. E verrebbe da dire: mai come adesso ne abbiamo bisogno.

 

Alla signora ho chiesto: ma non vi ha fatto problema la fede cattolica di una personalità come quella di Giussani? Lei mi ha spiegato che quel rapporto, centrato sul Mistero, ha fatto loro approfondire il buddismo. E tuttavia proprio mostrandomi le foto delle loro attività mi ha raccontato che una pratica, trasferita tale e quale dal carisma proposto da don Giussani, ai giovani buddisti che seguono le indicazioni dei monaci, è la caritativa. L’azione umana, il gesto in qualche modo “importato” in Giappone dopo questo incontro.

 

A noi questi monaci insegnano la mancanza di senso di colpa, la malinconia, l’armonia con la natura (oltre a don Giussani il personaggio della nostra cultura che più piace alla Saito è San Francesco) con una profondità di attenzione e un rispetto senza pari. A loro è servito l’esempio del gesto come dimensione di rapporto con l’infinito: la caritativa. Altro che dialogo inter-religioso questo è il miracolo di un’unità vera. Grazie al Mistero.

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