Pagine 52 e 53 del libro intervista La luce del mondo. Benedetto XVI risponde ad una domanda del giornalista Peter Seewald sulla possibilità di dimettersi da Papa. “Quando il pericolo è grande”, risponde subito Ratzinger, “non si può scappare. Ecco perché questo sicuramente non è il momento di dimettersi”. Ma poi, aggiunge: “Quando un Papa giunge alla chiara consapevolezza di non essere più in grado fisicamente, mentalmente e spiritualmente di svolgere l’incarico affidatogli, allora ha il diritto e in alcuni casi anche il dovere di dimettersi”. Allora, quella confessione a Seewald fece discutere e scrivere mezzo mondo. Ci fu chi ci volle vedere un pessimismo di fondo sulla Chiesa, e ci fu chi addirittura interpretò la sortita di Ratzinger come un’ammissione di scarsa capacità pastorale, di debolezza endemica di un Papa non abbastanza leader.
E invece non è così. E non sarà così. La parola chiave che dice a Seewald è la parola dovere. Sente un imperativo il Ratzinger dimissionario: il dovere di dimettersi. Un dovere che oggi è in qualche modo diventato più urgente e più evidente per Benedetto XVI. Un gesto umile, profetico, doloroso. Qualcosa che si iscrive per sempre nella storia del mondo e della Chiesa. E tuttavia un gesto di somma razionalità, anche se resta un gesto mozartiano, nel senso di ironico, leggero, stupefacente. Lo abbiamo già scritto, con discrezione, qui su ilsussidiario.net ma una delle parole chiave di questo splendido e insieme doloroso pontificato vissuto “alla fine dei tempi” è la parola “purificazione”.
Benedetto XVI ha iniziato in certo senso il suo pontificato ponendosi il problema della purificazione della ragione. Con lo storico discorso di Ratisbona. Poi è passato alla purificazione della fede, arrivando ad affrontare con grande coraggio il tema della pedofilia, della grande “sporcizia nella Chiesa”. E’ come se con questo ultimo, e di nuovo umile, gesto il Papa abbia portato il suo cammino di purificazione fin sulla cattedra di Pietro, sulla Sede Apostolica. Compiendo uno straordinario cammino.
Il messaggio, lo si trova in tanti passi splendidi dello stesso libro di Seewald, è alla fine radicale: ricordare alla stessa Chiesa (che spesso ha paura, si vergogna di Gesù Cristo) che tutto, ma proprio tutto, viene da Lui. La Chiesa è del Signore, la fa il Signore.
Una lezione di fede e di libertà in un tempo che sembra aver reso evidente fino ai particolari il giudizio che all’inizio del secolo scorso formulava il grande poeta inglese T.S. Eliot. Lezione ad un mondo che ha abbandonato la Chiesa e ad una Chiesa che sembra aver abbandonato il mondo.
Certo si avverte un senso di vertigine e di sofferenza nell’affrontare questa sfida, ma insieme, come accadde negli altri passaggi, si avverte il sapore di un’operazione di verità profonda, profetica, davvero doverosa e necessaria per l’uomo di oggi.