Enrico Letta inizia stamattina le consultazioni per formare un nuovo Governo. Due mesi dopo le elezioni, forse si può tornare a sperare nell’Italia. Come dimostra l’accoglienza positiva dei mercati. Ma c’è una partita decisiva sul destino suo e del suo Governo. Facciamo un passo indietro per capire quale.
A Letta questo difficile compito è stato affidato da uno straordinario Giorgio Napolitano, il vecchio Presidente che le forze politiche hanno scongiurato di rimanere al Quirinale, dopo una settimana di tentativi surreali nel votare il suo successore. Il rinnovato Capo dello Stato ha dimostrato di saper essere super partes, disinteressato, è rimasto lucido in momenti difficilissimi. Ha spiegato a tutti che la politica è l’arte della soluzione, del compromesso, della convergenza. Ed ha preso le redini quando i partiti, di fronte ad una crisi profonda, sono “impazziti”, come lui stesso ha detto.
Allo stesso tempo, la sua elezione è stata una mossa disperata, l’extrema ratio di un Parlamento riunito in seduta comune, arrivato esausto alla quarta votazione col popolo rumoreggiante fuori dal Palazzo. La vecchiaia di Napolitano, dato anagrafico che sconsigliava la rielezione e che lo ha giustamente fatto resistere alle richieste per lungo tempo, è stata vista, dai suoi critici più feroci, come una grande metafora: un sistema vecchio, decrepito che non riesce a rinnovarsi. Come se non ce la facesse a compiere un necessario salto generazionale. Su Napolitano si è distesa l’ombra di Paul Von Hindenburg, l’ultimo presidente della Repubblica di Weimar, così anziano che morì mentre era ancora in carica. Ma Hindenburg spianò la strada al giovane Hitler.
Tuttavia il nuovo e il giovane non sono sempre sinonimi del buono e del giusto. Purtroppo. Per l’appunto anche Hitler era “giovane” e Mussolini faceva cantare “Giovinezza”. E però il compito di Napolitano ora è far compiere quel salto generazionale, assecondare quell’ansia di cambiamento tanto giustamente diffusa nel nostro Paese. Ecco la partita che deve giocare Enrico Letta. Che quasi incarna fisicamente questa sfida: il rinnovamento nella democrazia. Se il Palazzo si trincera nei suoi privilegi, attorno al vecchio Presidente, e non si rende conto che deve rinunciare alla sua non più riconosciuta superiorità, tagliare i costi della politica, riformare la legge elettorale, trovare una nuova forma di mediazione con il popolo, può arrivare davvero ad una liquidazione finale. Rischia infatti l’approdo ad una bancarotta morale, non solo economica.
Come fu per l’appunto per Weimar. Se invece la politica saprà seguire la saggezza del vecchio Presidente e promuoverà riforme, facce nuove, lancerà dei giovani per rivitalizzare una democrazia esausta, allora forse il Paese potrà ripartire, tornando ad avere fiducia in se stesso. Ecco perché la lista dei ministri andrà analizzata anagraficamente, anche se non solo.
Napolitano e Letta meritano una fiducia pregiudiziale, un sostegno. Lo meritano per quello che hanno detto e per quello che hanno fatto in questi anni. Il Governo deve nascere avendo chiaro questo scenario da fine dei tempi. E i partiti, soprattutto Pd e Pdl che sembrano poco decisi nel sostenerlo, sbagliano a distaccarsi, a sentirsi poco responsabili, a percepirlo come un “governo amico”. Saranno considerati comunque i primi colpevoli e saranno travolti.
Se la democrazia italiana non saprà tornare nel Paese reale, il vulcano ribollente dell’insurrezione permanente prima o poi esploderà. I tumulti della piazza grillina (ma anche fascista e dei centri sociali), altro parallelo col Novecento, ricordano le violenze del biennio rosso 1919-1920 che precedettero l’ascesa di Mussolini. C’è un clima “diciannovista”. Non si scherza col fuoco della rivoluzione e del golpe. Soprattutto quando la gente soffre e soffre davvero per la crisi economica. E una classe politica, sorda al grido di dolore del Paese e incapace di rispondere, diventerebbe sempre di più il comodo caprio espiatorio delle colpe di tutti.