Eric Clapton, il musicista che senza le canzoni di Robert Johnson non sarebbe mai diventato il “Dio della chitarra” come scrivevano sui muri di Londra, ci ha messo più di 40 anni prima di avere il coraggio di incidere un intero disco di brani del bluesman scomparso a soli 27 anni. Francesco Piu di anni non ne è ha neanche 50, ma ha già “osato” impegnarsi in una esperienza del genere. Il suo nuovo cd, “Crossing” contiene infatti dieci pezzi dell’uomo che secondo le leggende vendette l’anima al diavolo in cambio della capacità di suonare il blues.
In realtà Johnson ancor più che un bluesman in senso stretto si può considerare il primo songwriter della storia, per la complessa e raffinata capacità di scrivere testi che andavano al di là della ripetitività e semplicità del blues. Musicalmente invece lo si può tranquillamente includere tra i padri fondatori del rock’n’roll. Piu, una carriera sostanziosa con tre dischi in studio e due dal vivo e dozzine di festival di livello internazionale, da sempre di blues ne mastica moltissimo. Si è avvicinato a questa impresa con il coraggio o forse l’incoscienza della sfida, arricchendo i vari brani di strumentazione crossover che rimanda agli antichi suoni africani dove tutto ebbe inizio, ma anche inserti elettronici e strumentazione della sua Sardegna.
Crossing diventa così qualcosa di più di una serie di cover, ma una riscrittura in chiave sperimentale, un vero “incrocio”: si prenda Me and the Devil dove spiccano djembè (tamburo a calice africano), darbuka (percussioni mediorientali), pipiolu (zufolo di canna sardo). Eccelle in questo brano il bravo Marco Pandolfi all’armonica. In Stop Breaking Down invece, oltre alla sua ottima slide, ecco il launeddas, strumento a fiato ancora sardo. Naturalmente la voglia è quella di andare a sentire come Piu abbia riletto la leggendaria Crossroads, il pezzo che Clapton rese un inno del rock con la sua strepitosa rilettura ai tempi dei Cream. Ed ecco la sorpresa. La strumentazione afro – sarda crea un groove ipnotico che manda a mondi lontani e antichi, quasi un sabba infernale degno di quel leggendario incontro tra Johnson e Lucifero, con la lap steel di Piu che si incrocia alla elettrica con effetti di pura psichedelia blues. Splendida.
Non delude neanche la conclusiva Love in Vain, brano che i Rolling Stones “rubarono” e si attribuirono a lungo, con djembè, tumbarinu de Gavoi e una elettrica che incanta. Piu, poi, vocalmente, si produce in quella che probabilmente è la sua prova vocale più riuscita della carriera. Un plauso per il coraggio: sfida vinta.
Sempre chitarra protagonista anche se questa volta acustica e giocata sui timbri del country e del folk, in Letters never sent, di Michele Miko Cantù. Chitarrista brianzolo noto per la sua abilità all’elettrica, qua mette in mostra un approccio acustico di eccellente qualità. Le sue sono ballate dall’incedere classico, un “crossroads” questa volta tra Steve Earle, Bruce Springsteen e altri eroi del country “fuorilegge”. Miko ha una capacità compositiva di ottimo livello, per la semplicità di costruire modelli melodici che incantano, in brani crepuscolari e intimi. L’iniziale Keep on going mette sin da subito sul piatto tutte le carte: fingerpicking, mandolino e pedal steel, una cartolina da un tramonto su qualche highway del Midwest.
La bella voce dell’artista fa il resto, dalle tinte calde che ricordano quella di un maestro come John Gorka. Succede nella scarna Millions e in Memory Lane, che potrebbe uscire dai solchi di un disco come Nebraska, un country noir pieno di mestizia e rimpianti sparsi sulle strade della vita. Altrove Miko spinge il pedale sulle tracce di Johnny Cash come nella briosa Prison Guard, oppure svincola nel vibrante dixieland di Turn some music on che potrebbe uscire da una bettola di New Orleans degli anni venti.
La sua classe di chitarrista è infine evidente nel fingerpicking del gospel blues di Been smoking too long. Unica cover del disco è la classica Galway Girl di Steve Earle. Lo accompagnano musicisti eccellenti: Paolo Ercoli, Eugenio Poppi, Andrea Verga, Davide Monti, Mauro Bernabovi, Sergio Sala, Andrea Bonini, Pedro Bredeon. Mai sopra le righe, intervengono con parsimonia affrescando con eleganza un disco praticamente perfetto.
Due dischi che, come diciamo da sempre, mostrano la classe e la bravura di tanti artisti italiani, lontani dai talent e altre porcate simili: questa è musica dell’anima, non usa e getta.