“Questa cosa del macho è sopravvalutata”, bofonchia ironicamente Clint Eastwood verso il finale di Cry Macho – Ritorno a casa (la prima parte del titolo significa letteralmente “piangi macho”, appunto), guardando con indulgenza e distacco alla sua leggenda e alla sua attuale malinconica vecchiaia. Ispirato all’omonimo romanzo del 1975 di N. Richard Nash, l’ultimo film diretto e interpretato dall’intramontabile attore e regista – ormai 91enne – abbandona definitivamente il mito del “cavaliere pallido”, dell’eroe controcorrente o la riflessione sui malesseri della società americana, per accompagnarci nel percorso on the road di Mike Milo, vecchio ex campione di rodeo e abile addestratore di cavalli.
Curvo per gli anni e per il passato travagliato (ha perso moglie e figlio in un incidente stradale), l’anziano gringo texano è stato sopraffatto da alcol e droga e si avvia a un triste e solitario declino. Ma c’è un’imprevista, anche se rischiosa, possibilità di riscatto: Howard Polk, il suo ex boss e amico che lo ha aiutato nei tempi più bui, gli chiede di riportargli nel suo ranch il figlio tredicenne, che vive con una madre instabile e fin troppo distratta, quando non pericolosa, a Città del Messico. Accettando l’incarico Mike pensa di sdebitarsi compiendo una sorta di ultima missione, anche se si tratta in realtà di impegnarsi in un vero e proprio rapimento. L’impresa non si rivela affatto facile sia perché il ragazzino, Rafael chiamato “Rafo”, è un irrequieto ribelle il cui unico affetto è un gallo (Mike lo irride chiamandolo “pollo”) che allena per combattimenti clandestini, sia perché la madre per interessi economici vuole comunque tenere il figlio con sé.
Il vecchio cow boy riesce a fatica a convincere il ragazzo a seguirlo verso la frontiera in un percorso irto di ostacoli, ma anche di sorprese, in un road movie dal ritmo pacato e mai banale, che è contemporaneamente una sorta di western esistenziale. Perché gli inseguimenti ci sono, le corse dei cavalli e le strade polverose anche, i paesaggi maestosi e infiniti pure, ma ciò che conta è altro: il rapporto che cresce tra il vecchio e l’adolescente alla ricerca di un padre e la sosta forzata in uno sperduto villaggio messicano, dove l’accoglienza gratuita e coraggiosa di Marta (bella e dolce vedova che accudisce col sorriso quattro bambine della figlia, scomparsa precocemente col genero) insegna all’ex star del rodeo che ci si può fermare in un luogo dove si impara a ricevere e a donare.
“Guarda dove stai andando e vai dove stai guardando”, mormora l’addestratore di cavalli a Rafael e agli spettatori, con quel suo sguardo profondo e stanco, che ci trasmette tutto il suo desiderio di ricerca di un senso per un’esistenza così lunga e ormai indebolita. Sa perfettamente che anche per gli uomini vale la diagnosi che intravede per un cane sofferente: “Non so come curare la vecchiaia”, ammette con voce flebile. E questo è vero a maggior ragione per lui stesso, così allampanato e tremolante sotto il suo cappello gualcito da cowboy. Non si guarisce, ma l’età anziana si può vivere con dolcezza e intensità, malgrado o forse proprio grazie ai ritmi rallentati e all’andatura ingobbita e quasi claudicante.
La strada dei due protagonisti – lo stagionato Mike e il giovane Rafo – corre verso il confine tra Stati Uniti e Messico: per Eastwood però si tratta di un confine metafisico ed esistenziale. Il tema della vita che si avvia al declino viene affrontato con delicatezza e profondità nel villaggio messicano dove i due fuggiaschi trovano per rifugio solo una cappella dedicata alla Vergine Maria (di Guadalupe).
Proprio nella piccola cappella sorge spontanea la domanda cruciale del ragazzino al vecchio, che si sta prendendo cura di lui: “Ma tu credi in Dio?”. Mike non può che rispondere che tutti abbiamo un padre e che sì, anche lui ci crede. E del resto se il viaggio è verso il confine della vita, Clint-Mike non può certo mentire né a sé, né al ragazzo. Lo consegnerà a un padre che forse sarà per Rafael meno paterno di quello che è stato lui per il ragazzo in questo viaggio. Ora tocca al vecchio cowboy concludere ben altra missione, quella degli ultimi tempi della sua vita. Milo ritorna così a quel villaggio messicano povero ma familiare, dove potrà letteralmente danzare verso l’eternità con la bella Marta, che malgrado tutte le sofferenze patite conserva il gusto della vita e dell’amore agli altri. È proprio ciò che desidera ogni uomo, ancor più nel tempo del Natale, e soprattutto un macho-regista sul viale del tramonto.
E noi plaudiamo al coraggio del novantenne Clint Eastwood, capace di interpretare se stesso, ormai non più macho, a cui sotto il cappello da cowboy sfugge qualche lacrima di commozione come a noi, che lo guardiamo con una tenerezza quasi imbarazzata. Ma con una speranza in più per il nostro futuro.
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