La vicenda che ha inguaiato Luca Lotti, costringendolo a sospendersi dal Pd, sta in queste ore ricadendo con tutta la sua evidente gravità sulla testa di Matteo Renzi.
Si fa un bel dire che politica e magistratura hanno sempre dialogato, più o meno riservatamente, su ruoli e posti ai vertici della giustizia italiana. Qualche renziano d’antan e conoscitore della storia dei comunisti italiani ha evocato, a difesa dei due parlamentari Pd beccati a tarda notte in una saletta di un hotel romano a decidere le sorti delle più importanti procure italiane, il ruolo di eminenza grigia svolto dal senatore Ugo Pecchioli, considerato negli anni 70 il ministro degli interni ombra del Pci e a cui erano stati effettivamente delegati i rapporti con il mondo delle toghe e delle divise.
Delegato, appunto.
Dell’indiscutibile figuraccia fatta da Lotti e da Ferri, pronti a dispensare giudizi in libertà su procure e magistrati distinguendo gli amici dai nemici, colpisce il fatto che ancora nessuno si chieda da chi fossero delegati i due a trattare. Viste le smentite giunte dal partito, non resta che pensare che stessero lì a nome della corrente. Ed è qui che casca l’asino, si sarebbe detto una volta.
Zingaretti ha smentito categoricamente ogni forma di delega, aggiungendo che il Pd che lui ha in testa non tratta sui posti nelle procure. Allora a nome di chi Lotti e Ferri trattavano? Perché gli altri interlocutori ne riconoscevano una qualche rappresentatività? E cosa avevano da offrire – visto che pur sempre era una trattativa – agli altri contraenti l’accordo?
Difficile non collegare tutta la vicenda all’annosa questione che continua a pesare sul futuro del principale partito di opposizione.
È vero che è stato proprio Renzi ad escludere pochi giorni fa la nascita di un nuovo partito. “Per cui non ci sarebbero le condizioni” ha poi aggiunto.
Un messaggio comunque poco rassicurante per Zingaretti. Il nostro ex primo ministro non fa un suo partito non perché crede nel Pd e vuole contribuire, anche se minoranza, al suo successo. No, lui non lo fa semplicemente perché a suo dire non ce ne sarebbero le condizioni. Da cui si deduce che se ci fossero, lo avrebbe già fatto.
Ma quali sarebbero le condizioni a cui egli allude? Possono essere diverse, ma una sembra più importante delle altre. Il senatore si sta rendendo conto che il gruppo parlamentare del Pd costruito con tanta cura e che doveva garantirgli la massima fedeltà, non sembra più essergli ubbidiente.
In più di un’occasione i suoi fedelissimi hanno confessato di essere rimasti un gruppetto di soli 13-14 parlamentari al seguito del senatore fiorentino.
Gli altri, chi pubblicamente chi alla chetichella, sono corsi dopo le europee dal nuovo segretario per dare ampia testimonianza della propria rinnovata fedeltà.
Da questa vicenda se ne traggono tre conclusioni molto chiare: la prima, che Lotti trattava a nome di un gruppetto di irriducibili, forse millantando un potere che in realtà non ha più; la seconda, che Renzi è in grandissima difficoltà, chiuso come è dalla forza crescente di Zingaretti e dall’attivismo di Calenda, che si sta conquistando i cuori dei renziani fedeli al Pd; la terza, che è venuta meno la ragione per cui Zingaretti dovrebbe auspicarsi un rapido ricorso alle urne e cioè la necessità di prendere il controllo dei senatori e dei deputati.
Solo qualche mese fa il neosegretario si era vista respinta al mittente la richiesta di cambiare almeno uno dei due capigruppo.
Resta ora da vedere se Zingaretti con la nuova segreteria, che sarà nominata martedì prossimo, si accontenterà di un generico e sussurrato ammiccamento della maggioranza dei gruppi parlamentari o – come sarebbe più giusto e logico – passerà all’incasso, chiedendo di votare l’immediata sostituzione dei due capigruppo Delrio e Marcucci, palesemente incapaci di interpretare la nuova linea e fin troppo resistenti al nuovo corso, schierati come sono – come dimostra la clamorosa dichiarazione di Marcucci a favore di Lotti – nella mera difesa del passato renziano.