“O errore, figlio odioso della malinconia, perché offri alle credule menti degli uomini immagini di cose che non sono?”. Queste parole tratte dal Giulio Cesare di Shakespeare sono pronunciate in un tragico contesto, ma si prestano a considerazioni più ampie. La malinconia scivola verso la morte. La battuta precedente annoda il calare della luce alla sconfitta dell’azione umana: “O sole che declini! Come cali tu entro la notte nella tua rossa raggiera, così tramonta il giorno in un barbaglio di sangue. Tramontato è il nostro giorno: sorgono ora le tenebre, i nembi, i pericoli. Tutto quello che abbiamo fatto è annullato”.



Qui è la presa d’atto del fallimento della congiura che uccise Cesare, ma altrove potrebbe segnare, se si avesse la stessa sincerità nel riconoscerlo, il destino di molte azioni compiute o interrotte. È del resto esperienza comune, forse inespressa, ma presente in numerosi spunti letterari, che l’attività umana, anche quella più alta nei suoi ideali, anche quella più consueta e feriale, abbia vita breve e rapidamente declini.



La malinconia delle cose che passano, l’avvertimento del limite ultimo costituito dalla morte che incombe portano con sé un dono maligno: il giudizio si offusca e impedisce all’uomo di usare in modo corretto la sua intelligenza. L’ombra della malinconia riserva a chi ne è preda “immagini di cose che non sono”. Sogni, incubi, illusioni. Non di rado progetti arditi o immorali. Nell’abisso delle menti umane di cui già parlava con disincanto Guicciardini, si può ipotizzare che la malinconia costituisca la radice nascosta ma operante di tanta violenza palese, di tanto risentimento celato e alla fine deflagrante di cui la cronaca dà notizia ogni giorno.



E forse ancora la malinconia è la chiave che apre il triste scrigno della corruzione dilagante nei livelli più alti della società, fino agli organismi di rango costituzionale, come il Consiglio superiore della magistratura. L’origine latina della nostra lingua è eloquente: i magistrati sono coloro che ricoprono una carica pubblica, coloro che sono di più degli altri, i capi, uomini che hanno tutto, potere, ricchezza, prestigio. Quale brama, quale torbido pensiero guida chi gode già di un potere assai forte, di una ragione inappellabile? Solo l’amplificazione del loro potere? Forse bisogna cercare più sotto, alle radici inconfessate della scontentezza, che li irretisce in trame oscure verso le “cose che non sono”, nell’illusione che esse appaghino, finalmente. Ma quando le cose oscure vengono alla luce, allora si svela il loro inganno. Esse non sono che in menti credule, offuscate dalla disperazione di ciò che nella realtà sembra mancare.

Ha ragione chi afferma che la malinconia, in tutte le cangianti forme che assume, non è solo cosa da psichiatri. Essa appartiene al patrimonio dell’uomo da quando fu cacciato dall’Eden, copre col suo velo le tuniche di pelle con cui fu rivestito. Per questo essa è diventata anche spinta a cose buone, a costruzioni sociali utili, all’arte che sa attraversarla. A patto di riconoscerla e di contrastare il piano inclinato che la fa deviare fino alla morte. A patto che sia compagna delicata nel cammino impervio verso la luce.