Tiene banco da alcune settimane la discussione attorno al recentissimo disegno di legge delega in materia di “eleggibilità, costituzione e funzionamento del Consiglio Superiore della Magistratura”, che nel prossimo autunno sarà oggetto di esame nelle aule parlamentari. Nelle intenzioni del ministro proponente (il Guardasigilli Bonafede) le nuove norme dovrebbero anzitutto modificare i meccanismi elettorali per la scelta dei componenti dell’organo di autogoverno, ponendo rimedio – così si sostiene – alle degenerazioni di quel sistema correntizio all’interno della magistratura delle quali tutti abbiamo potuto avere un saggio leggendo sui quotidiani brani e stralci delle conversazioni telefoniche e ambientali tra l’ex consigliere Palamara e la sterminata rete di insospettabili “amici” di quest’ultimo, a tal punto pervasiva da ipotizzare, al netto di inutili e insostenibili ipocrisie, che al predetto “sistema” ben pochi magistrati fossero estranei.
L’esecrazione del sistema delle correnti pare a tal punto accecare l’attenzione degli opinionisti e degli “addetti ai lavori”, che non ci si avvede anzitutto come il meccanismo elettorale che la riforma vorrebbe introdurre non elimini affatto le dinamiche correntizie, ma – se possibile – le rafforzi. Basti pensare che, per essere eletto quale membro dell’organo di autogoverno, il singolo candidato dovrebbe conseguire il 65% dei voti nell’ambito del proprio collegio elettorale, con l’evidente necessità di dover disporre di vaste reti relazionali che richiamano all’evidenza quelle dinamiche associative che la riforma vorrebbe eliminare.
La riforma, peraltro, nasconde un’insidia ancor più grave di quella appena indicata. Nel testo a firma del ministro Bonafede sparisce infatti la norma che sino ad ora ha assicurato che tra i componenti del Csm il numero dei magistrati giudicanti sia almeno pari al doppio di quello dei magistrati requirenti (i pubblici ministeri), ed è sin troppo evidente che – eliminata simile barriera – il futuro Consiglio vedrà la netta prevalenza dei togati requirenti. I pubblici ministeri sono infatti i magistrati più esposti mediaticamente, quelli più visibili e quelli che incutono più timori per gli esorbitanti poteri di cui sono dotati, e saranno dunque tra i candidati quelli più votati (tanto più in un sistema che richiede maggioranze bulgare per superare la competizione elettorale). Il rischio, insomma – come osservato da uno dei più autorevoli studiosi contemporanei di diritto penale, il prof. Tullio Padovani – è quello di “consegnare l’organo di autogoverno alle Procure della Repubblica”, generando così un sistema giudiziario nel quale la progressione delle carriere dei magistrati giudicanti – affidata alle prerogative del Csm – sarà ancor più condizionata dal gradimento della categoria requirente.
Ciò che è in gioco – ora più di prima – è il principio dell’autonomia e dell’indipendenza del giudice dal pubblico ministero. Se già la terzietà del giudice – come chiunque abbia un briciolo di onestà intellettuale può constatare – è compromessa dall’appartenenza di questi al medesimo ordine del pubblico ministero (l’essere parti del medesimo “corpo costituzionale” determina – invero – nel giudice una aprioristica fiducia nella legittimità e nella fondatezza delle indagini e nei provvedimenti adottati dal pubblico ministero, assai difficile da scardinare, sì da privare spesso la difesa di un vero e proprio interlocutore), essa scomparirà del tutto in un sistema ove gli equilibri del Csm saranno nettamente spostati a favore della funzione requirente ed ove dunque i pubblici ministeri diverranno di fatto i decisori delle carriere dei magistrati.
Ecco la ragione per la quale, prima della riforma del Consiglio Superiore della Magistratura, occorre affrontare il nodo della separazione delle carriere requirente e giudicante.