Terminate le Quirinaliadi e avviato il ritorno all’ordinarietà della vita politica, proprio dalle parole pronunciate nel discorso di insediamento dal rieletto presidente Mattarella ha ripreso slancio il confronto sulla nostra scalcagnata giustizia.
Nella stessa mattinata, ovvero lo scorso giovedì, in cui il presidente del Consiglio e la ministra Cartabia sono tornati a discutere della riforma del Csm, nel suo discorso di insediamento il presidente della Repubblica ha sottolineato la necessità di riaprire il cantiere giustizia: “Nell’inviare un saluto alle nostre magistrature – elemento fondamentale del sistema costituzionale e della vita della nostra società – mi preme sottolineare che un profondo processo riformatore deve interessare anche il versante della giustizia. Per troppo tempo è divenuta un terreno di scontro che ha sovente fatto perdere di vista gli interessi della collettività. È indispensabile – ha aggiunto – che le riforme annunciate giungano con immediatezza a compimento affinché il Consiglio superiore della magistratura possa svolgere appieno la funzione che gli è propria, valorizzando le indiscusse alte professionalità su cui la magistratura può contare, superando logiche di appartenenza che, per dettato costituzionale, devono rimanere estranee all’ordine giudiziario. Occorre per questo che venga recuperato un profondo rigore”.
Sono tuttavia quasi tre anni, da quando il trojan inoculato nel cellulare di Luca Palamara ha svelato “il mercimonio” sulle nomine di vertice, che analoghi appelli cadono nell’oblio, affossati da feroci contrapposizioni che dovrebbero ora essere definitivamente spazzate via per far posto ad una vera riforma.
Il condizionale è d’obbligo e l’ottimismo è oramai una professione di fede se solo, ad esempio, si tiene in considerazione l’alea di incertezza (per usare un eufemismo) che ha caratterizzato le (bis) nomine delle due più alte cariche della magistratura.
Nominati lo scorso anno dal Csm, il presidente della Corte di Cassazione e il suo vice hanno subìto l’onta dell’annullamento delle loro nomine dal Consiglio di Stato, sebbene pochi giorni dopo siano poi siano stati riconfermati dal Csm, ma il contenzioso sulle loro nomine non pare esaurito, visto che il “ricorrente” dottor Spirito, presidente della Terza civile, è in procinto di depositare un ulteriore ricorso, stavolta per ottenere la “ottemperanza” della sentenza precedente. Altro che giostra.
Il clima è davvero avvelenato. Il permanere di una sensazione di generale precarietà del cosiddetto autogoverno dei magistrati è difficilmente arginabile, mentre il grado di credibilità della magistratura ha raggiunto minimi storici non degni di un paese civile e democratico. Già da dicembre la riforma del Csm, attesa dalla scorsa estate, era pronta per essere discussa in Consiglio dei ministri, ma è rimasta ben custodita nel cassetto della ministra a causa delle tensioni crescenti tra i partiti in vista del voto del Quirinale.
L’urgenza, giova ricordarlo, è dettata, oltre che dalle ragioni appena evocate, dall’ulteriore circostanza che a luglio scadrà il Csm in carica e dunque c’è pochissimo tempo per evitare che al voto si vada con le vecchie regole che, come tristemente noto, avvantaggiano le correnti, alimentando il mercimonio.
Da quel poco che è dato di sapere, la riforma in fieri non sembra tuttavia essere caratterizzata da una vera incisività sui nodi che devono essere sciolti. Il primo è senz’altro il sistema elettorale dei membri togati. Al momento funziona così: tre collegi unici nazionali eleggono rispettivamente dieci giudici di merito (primo grado e appello), quattro pm e due giudici di legittimità (Cassazione).
Come osservato di recente da un giornale che certo non si caratterizza per una spiccata criticità alla magistratura, il metodo è “chi vince regna”: passano i primi classificati a prescindere dalle liste, il che rende impossibile l’elezione di magistrati indipendenti. In considerazione di ciò, la riforma Bonafede proponeva di aumentare il numero dei togati da 16 a 20 e farli eleggere da altrettanti piccoli collegi uninominali con la possibilità di esprimere tre preferenze e la previsione del ballottaggio se nessuno raggiunge il 65% dei voti; sistema che almeno sulla carta sembrava consentire a un magistrato conosciuto e apprezzato sul territorio, ma sganciato dalle correnti, di potersela giocare.
La proposta messa a punto dalla ministra Cartabia, invece, prevederebbe collegi molto più grandi (quattro o cinque per il merito, due per i pm, uno per la Cassazione) in ognuno dei quali passano i primi due classificati. La proposta sta incontrando molte critiche, poiché sembrerebbe agevolare il trionfo del correntismo e del bipolarismo.
Al progetto di riforma sono espressamente contrari gli avvocati, ma anche la grande maggioranza delle toghe, che in un referendum interno convocato dall’Associazione nazionale magistrati ha espresso la preferenza per un sistema di tipo proporzionale.
L’aspetto più interessante che emerge dalla consultazione avvenuta all’interno della magistratura sindacalizzata va tuttavia individuato nella circostanza che, a differenza dei gruppi che li rappresentano – quasi tutti contrari – giudici e pm non sembrano disdegnare nemmeno l’ipotesi di un sorteggio “temperato” per eleggere i componenti del Csm. Al quesito se vogliano che i candidati siano scelti “mediante sorteggio di un multiplo dei componenti da eleggere” ha risposto sì il 41,8%, dandosi così evidenza che la base la pensa in modo diverso da chi la rappresenta.
Sul piano politico, i 5 Stelle, Forza Italia e Lega sembrano guardare con favore all’ipotesi del sorteggio temperato, che però non pare essere fra le opzioni contemplate dalla ministra Cartabia, la quale, forte del sostegno del Pd – ovvero del partito che più “dialoga” da sempre con una parte importante della magistratura – lo considera incostituzionale, sostenendo che con il sorteggio potrebbe finire al Csm chiunque, anche il magistrato più inadeguato.
La quadratura del cerchio pare, quindi, ancora ben lontana dall’essere trovata.
Il secondo nodo al centro della riforma è quello delle cosiddette “porte girevoli”, cioè il rientro in servizio dei magistrati che si candidano in politica o vengono eletti. Il ddl Bonafede adottava una soluzione drastica: chi finisce un mandato elettorale non può più riprendere le funzioni giudiziarie, ma dev’essere collocato fuori ruolo. La posizione della ministra Cartabia sul punto pare ancora non del tutto definita, prevalendo allo stato una soluzione più “soft”: sì al rientro nelle aule di tribunale, ma con un “periodo di raffreddamento” di cinque anni da trascorrere in un diverso distretto e senza poter svolgere le funzioni più delicate (gip/gup o pubblico ministero) e occupare ruoli direttivi. Il tema pone senz’altro dei problemi di costituzionalità: oltre all’indipendenza della magistratura bisogna tutelare anche il diritto alla conservazione del posto di lavoro, che potrebbe non essere garantito dalla collocazione fuori ruolo.
Dal canto suo, il presidente dell’Unione delle Camere penali italiane, francamente non a torto, sottolinea come questa riforma, diversamente da quella sul processo penale che ha coinvolto molti più soggetti, tra cui la stessa avvocatura, è in corso di definizione tra il governo e l’Associazione nazionale magistrati, secondo una logica parasindacale. Ma una riforma che deve intervenire sulla più grave crisi della magistratura nella storia repubblicana non può essere scritta a quattro mani.
Esiste, infine, un terzo nodo, di cui troppo poco si parla e sul quale ancora meno si intende operare in concreto, ovvero il problema delle valutazioni di professionalità – positive quasi nel 100% dei casi – e della concreta responsabilità cui dovrebbero essere chiamati a rispondere i magistrati.
Immaginare che si possa riformare l’ordinamento giudiziario modificando solo il sistema elettorale del Csm è una sorprendente illusione. Ha ragione il presidente dell’Ucpi a sottolineare, come spesso fatto anche da queste pagine, che il vero principale motivo per il quale il sistema delle nomine non funziona, con le sue derive correntizie, è che le carriere procedono automaticamente, con valutazioni positive oltre il 99%.
La grande riforma della magistratura passa dunque, prima di tutto, dalla riforma dei meccanismi di progressione di carriera e quindi della valutazione di professionalità, che avrebbe anche il pregio di responsabilizzare il magistrato per ciò che fa. Non è un mistero che oggi il giudice non risponde mai a nessuno della qualità del proprio lavoro, venendo così totalmente deresponsabilizzato, nella consapevolezza che tanto andrà avanti ugualmente.
Ebbene, questo tema è del tutto ignorato dal progetto di riforma, che si limita a prevedere l’introduzione di un ulteriore livello di giudizio.
Echeggiano allora come macigni le recenti parole pronunciate da Giuseppe Ayala: “Il Csm è il vero nemico dei magistrati. Le correnti hanno un potere abnorme. Non furono le cosche, ma il Csm a disgregare il pool antimafia. Più che le leggi, va cambiato il sistema”.
Speriamo che la politica ne abbia davvero la forza.
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