Una cucina che pratica un vero ritorno al futuro, coniugando menù medioevali con progetti di protezione della biodiversità. Il tutto è appollaiato a circa 200 metri di quota, a Molvena, giusto sul perimetro dell’altopiano vicentino dei Sette Comuni. Qui lavora e porta avanti la sua gastro-filosofia un ex docente Dieffe, la scuola di formazione professionale padovana, riferimento d’obbligo per gli operatori della ristorazione.
Lui è Gianico Viero, e la sua cucina è quella della fattoria didattica Agriturismo Collalto, dove tiene seguitissimi corsi per gruppi, in presenza o da remoto, che al termine vengono certificati con attestati validi come curriculum o aggiornamento, anche per l’Inps. Viero, figlio d’arte (suo padre era ristoratore a Molvena), ha frequentato l’Alberghiero di Recoaro (dove studiò anche Carlo Cracco), e ha lavorato all’estero per poi tornare a casa. Nel 1990 un grave incidente (l’ingestione di soda caustica finita per sbaglio in una bottiglia d’acqua) lo tenne per 58 giorni in coma e successivamente per un lunghissimo periodo in ospedale, esofago ed intestino distrutti.
Come ne uscì?
Prima pesavo 82 chili, dopo un anno e mezzo di ospedale ne pesavo 30. Pensavo che ormai la mia vita fosse distrutta, finita. E invece un grande amico mi chiamò quale ambasciatore della cucina veneta a Courmayeur, in un albergo dove conobbi anche don Giussani, che alla fine della cena venne ad abbracciarmi. Ecco, penso che la mia seconda vita iniziò proprio lì.
Ha lavorato solo nelle cucine di alberghi?
No, ricordo con piacere anche il periodo in una mensa aziendale, e che mensa: era quella di Belfe, all’epoca leader nell’abbigliamento sportivo. Per la presentazione delle collezioni arrivavano le modelle più gettonate del momento, come Fernanda Lessa, che anche quando poi non ero più in azienda, finivano sempre per venire a cena nel mio agriturismo.
Viero, adesso il suo ritorno al futuro parte dalla cucina medioevale. Di cosa si tratta?
Tutto è iniziato dall’incontro con uno storico, Roberto Bruni, che mi regalò un testo antico, di anonimo, che appunto rivelava anche segreti e ricette dei piatti di quell’epoca. È stata una vera scoperta, che ha sfatato tanti luoghi comuni, come “si mangiava male” o “si mangiavano grassi e carni marce”, e via dicendo. Invece ci sono ricette risalenti appunto al Medioevo validissime e resistite fino ai giorni nostri, perché sapide, inconfondibili, magari difficili ma gustose.
Tipo?
Beh, ad esempio la sopa coada, il famoso pasticcio di piccione, o l’oca onta, la maniera migliore per conservare la sua carne. Ma ce ne sono moltissime altre, da poter essere riprodotte anche in chiave più moderna. Un patrimonio poco conosciuto, cancellato dalle mode e dalle influenze straniere, come quelle francesi: ma se pensiamo a una salsa come la besciamella, scopriamo che già ben prima della sua comparsa esisteva l’uso di addensanti, come la farina di riso, che raggiungeva lo stesso risultato. Pensi alle tavole imbandite alla francese, tutte porcellane e sete, e pensi a quelle medioevali italiane, quando non esisteva il menù, ma tutte le pietanze erano presentate una accanto all’altra, tra profumi e colori: quale sceglierebbe? Bene, tutto questo mi ha spinto anche a scrivere un libro, proprio insieme a Bruni, “Viaggio nella Venezia del medioevo tra storia e cucina”, che sarà presentato il prossimo 21 giugno in agriturismo.
Praticamente un manuale di cucina?
Non solo, c’è anche una parte con tante storie, aspetti della vita di Venezia alla fine del XV secolo tratti dal De Origine situ et magistratibus urbis Venetae. Comunque, la cucina medioevale è davvero un giacimento da scoprire: organizzo corsi per principianti e aggiornamenti per professionisti su questa, e anche sulla cucina veneta, sulla selvaggina, la panificazione, le erbe spontanee… Le ricette inserite nel libro sono autenticamente del XIV secolo e fanno parte di una lista di vivande note in tutta Europa, codificate secondo i dettami di Ippocrate e Galeno, rivisitate in ogni zona secondo la disponibilità di prodotti locali, e in questo senso Venezia era avvantaggiata dato che a Rialto si poteva trovare tutto il commestibile esistente al mondo.
Il futuro, invece, la vede impegnato su progetti di innovazione fondata sul recupero.
Sì, ad esempio quello del “Torello Rendeno”, portato avanti con la certificazione dell’Università di Padova. Si tratta di un protocollo disciplinare rigidissimo che vieta l’uso di fermentati, antibiotici ed estrogeni. I capi sono allevati con un mix di fieno e semi di lino che sono un antiossidante naturale. La razza rendena (allevata in Trentino e in Veneto) ha una marezzatura e un gusto particolare. Con il nostro tipo di allevamento otteniamo una carne prelibata con caratteristiche eccezionali, che hanno permesso di sviluppare anche la sopressa di vacca.
Lei crede nel “chilometro zero”?
Io credo nella produzione propria, e fondamentalmente è per questo che il mio habitat è un agriturismo. Da vent’anni propongo solo cibi che produciamo qui: nel 2012 ci hanno premiati quale migliore agriturismo d’Italia, e da allora i riconoscimenti si sono susseguiti. Ma al di là dei premi, sono convinto che le materie prime siano importanti più ancora delle trasformazioni: abbiamo un ettaro di frutteto dove coltiviamo ciliegie e albicocche, e un ettaro di vigneto; su tre campi vicentini (circa 9.000 metri) curiamo gli ulivi, su tre campi seminativi coltiviamo il maranello e il bianco perla; in novembre abbiamo i grani antichi e il grano Senatore Cappelli, tipi particolari per il pane. Il bosco che circonda l’agriturismo è quello sorto nella vecchia miniera d’argento a cielo aperto, esaurita e abbandonata, poi messa in sicurezza e oggi habitat di una biodiversità straordinaria, che chiamiamo “Busominiera”: è un bosco che si presta alle escursioni, alle terapie del silenzio e al risveglio dei sensi, tutte attività che qui organizziamo come fattoria didattica. Ecco, questo è il mio regno.
(Alberto Beggiolini)
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