La pagina più nera, più triste, più tragica della resistenza italiana è quella dei militari italiani che, alla sera dell’8 settembre, si ritrovarono completamente isolati nei Balcani e in Grecia, lontani mille miglia da casa, a dover fronteggiare partigiani e tedeschi che cercavano di disarmarli e imprigionarli. Laddove la prigionia, per chi la subì, fu equivalente a una morte lunga e dolorosa.



A questo quadro disperante si aggiunse la spietatezza dell’ordine del Fuhrer n. 005282/43 che, in sostanza, equiparava gli ufficiali italiani che non si fossero arresi a “franchi tiratori” con ogni conseguenza del caso. Sull’espediente giuridico adottato dai tedeschi si è molto discusso. La giustificazione addotta è che, non essendo l’Italia più in guerra, i suoi militari non avevano più diritto di essere rispettati come combattenti. Un’ineffabile ipocrisia, quella tedesca, e profondamente errata perché gli ufficiali italiani obbedivano a ordini che, fin dall’inizio (“resistere contro eventuali attacchi di qualsiasi provenienza”) erano inapplicabili quanto inequivocabili. Gli ufficiali, in altre parole, obbedivano agli ordini provenienti dal Re e dal Capo del Governo e non li si poteva ritenere responsabili di adempiere doveri che rientravano nell’onore militare. Va sottolineato che proprio gli ufficiali tedeschi che si macchiarono di migliaia e migliaia di crimini efferati in tutti i teatri di guerra si giustificarono, alla fine del conflitto, dicendo di aver dovuto “obbedire agli ordini”.



Eppure le divisioni nei Balcani, proprio perché poste in una situazione disperata, seppero reagire con una fermezza che, nel territorio metropolitano, quasi mai venne riscontrata. In Albania “Parma” e “Brennero” cedettero le armi ai tedeschi senza opporre resistenza, ma la “Firenze”, comandata dal generale Arnaldo Azzi, riuscì a respingere gli attacchi tedeschi e a stringere intese con i partigiani albanesi e le missioni inglesi che le assistevano. In tal modo Azzi poteva inviare al Governo italiano il seguente messaggio: “Oltre ventimila soldati italiani si sono dati alla montagna anziché rendersi prigionieri dei tedeschi”. Un anno dopo i superstiti della divisione sarebbero entrati a Tirana al fianco dei partigiani albanesi.



Ben diversa la sorte della divisione “Perugia”, che resistette gagliardamente sia contro i tedeschi sia contro i partigiani albanesi che cercavano di disarmarla. Nel corso di una drammatica ritirata riusciva a raggiungere Porto Edda il 22 settembre. Solo pochi piroscafi poterono lasciare il porto, poi dal 26 settembre più niente. Gli uomini della “Perugia” rimasero a Porto Edda attendendo un aiuto che non venne, patendo la fame più crudele. Alla fine, il 1° ottobre giunsero i tedeschi, disarmarono la divisione e iniziarono a fucilare gli ufficiali. Fra gli ufficiali condotti alla fucilazione vi erano il colonnello Gustavo Lanza e il tenente colonnello Emilio Cirino che, invano, cercarono di addossarsi ogni responsabilità per evitare la morte dei compagni. Solo due ufficiali dei servizi furono risparmiati ma uno di essi, il tenente dell’amministrazione Rodolfo Betti, si fece avanti chiedendo di morire dove era caduto il suo colonnello. A Porto Edda, altro massacro di ufficiali e anche qui, invano, il maggiore Mario Gigante e il tenente colonnello Domenico Pennestri cercarono di salvare i sottoposti, venendo fucilati da un nemico senza pietà e senza onore.

Anche i nostri capisaldi in Grecia cercarono di resistere per essere annientati uno dopo l’altro, a Coo, a Rodi e, soprattutto, a Lero, dove la guarnigione fu supportata da 4mila soldati britannici fino al 16 novembre. Non è possibile, in questa sede, riassumere la resistenza della divisione “Acqui” a Cefalonia, dove gli ufficiali inferiori costrinsero i propri superiori a resistere, con episodi di ammutinamento. Le trattative condotte dal generale Antonio Gandin non ebbero altro esito che quello di far occupare ai tedeschi alcune posizioni dominanti, ma il 13 settembre i tedeschi cercarono di forzare i tempi e attaccarono con alcune motozattere dirette ad Argostoli. Le batterie del porto fecero fuoco e affondarono una motozattera. Due giorni dopo iniziò una battaglia sanguinosa in cui i tedeschi utilizzarono massicciamente anche l’aviazione per avere partita vinta. Il 21 settembre i tedeschi presero l’iniziativa e, percorrendo sentieri poco battuti all’interno dell’isola, riuscirono a prendere alle spalle l’intero dispositivo italiano. Interi battaglioni e batterie vennero travolti. I tedeschi non fecero prigionieri. Tutti gli italiani caduti in mano tedesca vennero fucilati sul posto o dopo brevi trasferimenti, dopo essere stati depredati e percossi. I capi della resistenza furono catturati quasi tutti nella stessa giornata e iniziarono le fucilazioni non solo degli ufficiali ma di tutta la divisione al completo.

Fino a quel momento erano caduti circa 1.300 uomini fra ufficiali e soldati italiani. Nei giorni successivi, per ordine del generale Lanz, vennero trucidati circa 4mila soldati e 450 ufficiali. I soldati tedeschi della divisione da montagna, in gran parte militari di origine altoatesina, dimostrarono una ferocia particolare nei confronti degli italiani ed eseguirono gli ordini più spaventosi senza problemi di coscienza. In più di una fucilazione di massa, i soldati tedeschi invitarono i feriti a emergere dal mucchio di morti promettendo salva la vita per poi mitragliarli di nuovo. Altri 2.800 soldati annegarono nel naufragio delle navi che li trasportavano.

Il luogo più sacro alla memoria di quei giorni è la Casetta Rossa, sul promontorio di Argostoli. Qui furono portati 190 ufficiali e i tedeschi li fucilarono quattro alla volta e, tra i primi, anche il generale Antonio Gandin che, durante la battaglia era andato a combattere con i suoi uomini, volendo condividere il loro destino. Molti piansero, molti cercarono di evitare la morte fino all’ultimo; altri, e furono tanti, si comportarono bravamente, come il colonnello Mario Romagnoli che volle accendersi la pipa davanti al plotone d’esecuzione, senza che gli tremasse la mano; o come il tenente Gianni Clerici che si avviò alla fucilazione dicendo ai colleghi: “Facciamogli vedere come si muore!” cantando poi l’Inno del Piave.

Le truppe italiane in Jugoslavia ebbero sorti e comportamenti assai diversi fra loro. La II armata del generale Mario Robotti si disintegrò in pochi giorni senza che vi fosse un’apprezzabile resistenza. L’unica divisione che si oppose all’aggressione tedesca fu la “Bergamo”, comandate dal generale Emilio Becuzzi e che si trovava di stanza in Dalmazia, a presidio del territorio fra Sebenico e Spalato. L’11 settembre gli alti ufficiali della “Bergamo” si riunivano per decidere il da farsi. Solo il conte Alfonso Cigala Fulgosi, comandante della piazza di Spalato e Salvatore Pelligra, comandante dell’artiglieria divisionale, decisero di opporsi al disarmo imposto dai tedeschi. I combattimenti infuriarono fino al 27 del mese e gli uomini della “Bergamo” dovettero arrendersi alle SS della divisione Prinz Eugen che organizzarono un simulacro di corte marziale per processare gli ufficiali italiani. Il risultato poteva essere uno solo: la fucilazione. Il 30 settembre vennero giustiziati 50 ufficiali fra cui il colonnello Umberto Volpi, comandante del IV reggimento artiglieria, il generale Cigala Fulgosi e Salvatore Pelligra, che attese la raffica mortale nella posizione del saluto militare.

Le altre nostre divisioni in Montenegro erano la “Ferrara”, la “Venezia” e la divisione alpina “Taurinense”. Di queste la “Ferrara” si arrese ai tedeschi mentre le altre due rimasero compatte e diedero vita a una delle più straordinarie epopee della storia militare italiana. Anche in questo caso tutto dipese dalla tempra dei generali comandanti. Il generale Lorenzo Vivalda, comandante della “Taurinense” e il generale Giovan Battista Oxilia, comandante della “Venezia”, non solo non cedettero le armi ma respinsero gli attacchi tedeschi, unendo le proprie forze e congiungendosi ai resti della divisione “Emilia”.

Oxilia e Vivalda stipuleranno poi una vera e propria alleanza con i partigiani titini, costituendo la divisione “Garibaldi” che si coprirà di gloria nei due anni successivi, nonostante la fame, il tifo e i non facili rapporti con i partigiani. Infine, una notazione biografica. Pierluigi Leoni era tenente della “Taurinense”. Anche lui, come i suoi compagni, scelse di combattere contro i tedeschi, senza che vi fosse alcuna contraddizione con il proprio passato. Forse gli ci erano voluti quei tre anni di guerra per capire che lo straniero non deve essere oppresso (sposò, infatti, una montenegrina, Rosa Pajkovic) ma che ogni uomo merita la libertà come proprio diritto imprescindibile. E fu per quel motivo, per la fratellanza d’armi con i suoi compagni, per conservare l’onore dell’Italia che cambiò campo in pochi giorni. Come lui, milioni di italiani stavano compiendo un cambiamento epocale. Veniva definitivamente rigettato il miraggio di un’Italia come grande potenza militare per tornare a essere italiani, amanti della vita ma ancora più della libertà propria e di tutti gli uomini.

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