“Questo spentoevo sta finendo/ in un evento che si desta/ alza la testa e smette il sonno./ Un’era veramente nuova/ lo segue fedelmente/ era che fu grande/ sonnecchiante sottocenere/ mentre il fuoco ripuliva“. Sono versi di Gianfranco Lauretano, poeta (e non soltanto) di origini casertane, ma romagnolo di adozione, vivendo a Cesena, dove insegna e fa un mucchio di altre cose belle. Per restare al campo dell’insegnamento, Lauretano cura, in qualità di relatore e direttore, non pochi corsi per docenti e studenti sulla didattica della poesia, oltre a numerosi incontri con gli studenti e ai cicli sulla poesia e la scrittura creativa, che tiene ogni anno dalla scuola primaria all’università; a livello editoriale, inoltre, dirige la collana Poesia contemporanea e l’Almanacco dei poeti e della poesia contemporanea per la casa editrice Raffaelli (Rimini), nonché la rivista di arte e letteratura Graphie, per l’editore Il Vicolo (Cesena), di cui è stato il fondatore e ancora oggi è il direttore letterario. E senza dimenticare le traduzioni, i saggi e l’attività di critica letteraria che svolge per periodici e quotidiani.
Ma non è questo che ci interessa, perché a intrigarci è l’ultima opera poetica di Lauretano, partendo appunto dai versi in incipit, che peraltro richiamano il titolo del libro (Questo spentoevo, Graphe.it, 2024) e mettono in evidenza la fine di un’epoca, la nostra epoca, e l’avvio della nuova, di cui molti non hanno colto i segni, vuoi per noia, indifferenza, presunzione – soprattutto del potere e della cosiddetta intellighenzia –, o perché occupati in “orge” di vario genere. A nostro parere, il potere, qualunque potere, lo sa già, ma per continuare a perpetrare sé stesso finge di non saperlo e si guarda bene dal dirlo in giro. E invece Lauretano, con le sue parole di poesia, ha il coraggio di comunicarlo, insieme ai segni che ha colto della nuova epoca, arrivando – sono parole sue – “al cuore della questione su cosa sia la parola”.
Una parola che il potere, facendo il suo porco mestiere, ha traviato e continua a traviare per autoperpetrarsi il più a lungo possibile, alimentando guerre in ogni dove, violentando il creato, che chiama invece natura o ambiente per negarne l’origine, e vomitando parole su parole di menzogna, che non solo vorrebbero soffocare le parole vere, originarie e originali (pur se in parte ci riesce), ma confondono le persone, le comunità e i popoli, ed alimentano rabbia, discordia, odio e divisione, il divide et impera di romana memoria, che mantengono in vita il potere più di qualunque altra nefandezza compiuta.
Lauretano, con nettezza e pacatezza, con forza e chiarezza, scrive dello “spentoevo” in cui tutti siamo immersi, avvolti e “coinvolti”, per dirla come Fabrizio De André, seguendo la lezione di un grande maestro della poesia del secolo scorso – al pari di Mario Luzi e di Attilio Bertolucci, tanto per non far nomi – qual è stato Giorgio Caproni, il quale, come Lauretano stesso richiama nella Nota a fine silloge, gli “è sempre sembrata un miracolo”; anche per questo egli è entrato “in empatia con lui”, senza imitarlo, pur se “non me ne vergognerei”, afferma il nostro, ma alla cui lettura si è abbeverato e lo “ha riconnesso” con “la scaturigine del senso”, proprio perché la poesia di Caproni è di una struggente attualità, anche formale.
Ad esempio, quando il poeta genovese di origini livornesi, ed infine romano, utilizza il classico sonetto in forma di – è una brutta parola, ma ci vorrete perdonare se non ne abbiamo trovata una migliore – monoblocco, ovvero senza divisioni strofiche, perché secondo Caproni, e Lauretano stesso, ne spezzano la regolarità ed il ritmo, usando rime interne, versi brevi divisi e gruppi sintattici, diremmo intimamente uniti. Con questa sintassi spesso frantumata, anche ricorrendo alle interiezioni di valore fortemente affettivo, insite nell’origine onomatopeica delle parole, o acquisite attraverso l’uso esclamativo occasionale di parole normali, Lauretano, facendo propria la lezione di Caproni, sottolinea come il linguaggio possa correre il rischio di diventare uno strumento insufficiente, ingannevole e inadeguato a rappresentare la realtà.
In realtà, la parola poetica – sottolineiamo poetica – non corre questo rischio, anzi lo denuncia, lo supera e sublima la parola stessa, come confermano, per fare un altro esempio, le cinque poesie che il nostro dedica come Risposta a Leopardi, nelle quali la Cara Beltà con cui inizia ognuna di loro, è un primo segno della nuova era, della nuova epoca in cui si sta disfacendo, in cui sta morendo Questo spentoevo. Già alcuni segnali ci pare di aver colto in Questo spentoevo sta finendo (Alla chiara fonte, 2013) e in Di una notte morente (Raffaelli, 2016), ma è soprattutto in quest’ultima raccolta che, a nostro modesto giudizio, il pensiero poetico di Lauretano giunge a una sua compiutezza.
A nulla importa all’autore se “Dio non c’è”, perché Dio c’è, ma intorno a noi, qui in Occidente, se ne colgono soltanto alcuni brandelli, sparsi qua e là, perché coloro che credono non ci sia, vogliono le certezze della sua esistenza che a Dio non interessano; e infatti Lui “se n’è andato dove/ per crederlo non chiedono/ prove… |..| / perché non è richiesto/ si è spostato, non è/ maleducato e non risponde/ per forza, non impone/ il suo stato a chi non fa un gesto/ che non sia domandato”. La lezione, non solo stilistica, di Caproni è stata assimilata e permea la poesia di Lauretano. Insieme all’esperienza della “presenza inesorabile” incontrata.
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