Nel 1609 Galileo perfezionò il cannocchiale e, dopo aver mostrato ai senatori veneziani il vantaggio che esso offriva per il dominio dei mari, lo puntò al cielo, scoprendo cose che nessuno aveva mai visto (la luna è montuosa, Giove ha diversi satelliti ecc …) e aprendo un nuovo capitolo dell’astronomia.
Stabilì così un paradigma, tuttora al cuore della scienza moderna, appunto galileiana: un progresso degli strumenti permette nuove osservazioni, prima impossibili, le quali offrono gli elementi per rispondere ad alcune domande aperte, e simultaneamente ne aprono di nuove. Il cannocchiale fu decisivo, senza di esso Galileo non avrebbe portato alcuna novità all’astronomia; ci si potrebbe allora chiedere se lo strumento non abbia assunto il ruolo del protagonista, relegando lo scienziato ai margini.
Galileo fu forse solo il “registratore” che, con la sua abilità pittorica, realizzò i disegni e gli acquerelli che permisero a tutti di vedere ciò che si vedeva con il cannocchiale, in attesa che venisse inventata la macchina fotografica?
Non fu affatto così, il ruolo di Galileo rimase cruciale: oltre a trovare il modo di perfezionare tecnicamente il cannocchiale (altri, più esperti di lui in ottica, non lo fecero), fu lui a capire il significato di quanto poté osservare. Pressoché in contemporanea, l’inglese Harriot ebbe un cannocchiale paragonabile, con il quale osservò la Luna, ma, pur vedendo le stesse cose, non capì che essa era montuosa, e lo capì solo leggendo il Sidereus Nuncius di Galileo.
A distanza di quattro secoli, gli strumenti scientifici hanno raggiunto livelli di perfezione e di complessità allora inimmaginabili, e alcuni progetti di punta hanno assunto le dimensioni di grandi imprese industriali multinazionali: “strumenti” la cui realizzazione richiede uno sforzo coordinato ventennale da parte di centinaia o migliaia di scienziati, per un costo totale di centinaia di milioni, o miliardi, di euro.
Si potrebbe quindi nuovamente, e a maggior ragione, insinuare il sospetto: il vero protagonista diventa la “macchina” e lo scienziato ha solo un ruolo accessorio?
Questo sospetto è stato spazzato via in chi ha ascoltato, la sera di lunedì 15 a Varese (organizzazione dell’Associazione Euresis e del Centro Culturale Massimiliano Kolbe, con il supporto del Comune di Varese), le appassionate relazioni di due dei principali protagonisti di due tra le più grandi imprese scientifiche degli ultimi anni, che entrambe hanno avuto uno snodo cruciale nel 2009.
Uno, Lucio Rossi, è responsabile dei sistemi magnetici superconduttori e dei sistemi criogenici (i ‘frigoriferi’ che raffreddano alle bassissime temperature alle quali i magneti diventano superconduttori) del Large Hadron Collider (LHC) del Cern di Ginevra, il grande acceleratore che, dopo essere stato avviato e aver subìto un guasto nel 2009, è rientrato in funzione, ha già stabilito il primato dell’energia più alta mai raggiunta da un acceleratore, e ha in programma ulteriori aumenti dell’energia.
L’altro, Marco Bersanelli, è uno dei principal investigator per il satellite Planck, lanciato dall’Agenzia Spaziale Europea (Esa) con l’obiettivo di compiere una nuova misura della “radiazione fossile”, residuo del big bang che ha dato inizio l’Universo 13,7 miliardi di anni fa.
Il satellite, lanciato nel 2009, sta sistematicamente “spazzolando” il cielo raccogliendo dati, e costruirà una mappa del cielo profondo con una sensibilità e un dettaglio molto superiori a quelle dei due satelliti americani che lo hanno preceduto, COBE nell’89 e WMAP nel 2000.
Emerge, da entrambe gli scienziati, la passione per la scoperta e l’amore alla verità che rendono apparentemente ovvio ciò che ovvio non è affatto: com’è possibile che professionisti di alto livello investano venti e più anni di attività professionale, tenacemente e instancabilmente perseguendo un obiettivo che è un obiettivo di conoscenza e che sarà raggiunto solo se il progetto sarà coronato da successo?
E durante questi anni riescano a coordinare e finalizzare efficacemente centinaia di collaboratori, e di fornitori, e di aziende che sviluppano novità tecnologiche per rispondere alle loro richieste?
Nota Rossi che i grandi sviluppi della tecnologia, che sono uno dei caratteri peculiari della civiltà occidentale rispetto alle altre civiltà, sono figli dell’amore alla verità, e non sarebbero emersi ‘di per sé’; e ricorda il noto fatto che il World Wide Web è stato inventato proprio dagli scienziati del Cern per potersi scambiare i dati, oggetto del loro lavoro.
E, ben lungi dall’avere un ruolo accessorio alla macchina, ne parla con la conoscenza e la passione per la propria opera, sottolineando come un fattore cruciale, senza cui non si sarebbe realizzato nulla, sia stata la capacità di lavorare in sintonia. Tanto che non ha timore di accostare la propria opera alle grandi cattedrali, altrettanto frutto di uno sforzo collettivo che ha sempre saputo rigenerarsi e rinnovarsi, aggiungendo nuovi elementi costruttivi o addirittura ricostruendo in forme più “moderne” sulle fondamenta di una basilica paleocristiana.
Così, la struttura attuale degli acceleratori del Cern è il frutto di uno sforzo pluridecennale, che ha via via aggiunto nuovi anelli di accelerazione, sempre riutilizzando e aggiornando le strutture preesistenti (anche LHC riutilizza il tunnel di 27 km già costruito per il precedente acceleratore, il LEP).
Similmente, Bersanelli evoca la meraviglia e la vertigine che dall’antichità il cielo stellato ha suscitato negli uomini, stupore che non è stato affatto rimosso dalla conoscenza sempre più dettagliata della struttura del cosmo, ma è anzi restituito amplificato dall’intuizione della vastità e della complessità dell’universo. Il quale, anche nei suoi aspetti più estremi, rivela legami insospettati con la nostra esistenza.
La radiazione fossile misurata dal satellite Planck ci restituisce l’immagine dell’universo neonato, una bolla di plasma incandescente che stava condensandosi in atomi. In quell’immagine dell’Universo neonato Planck osserva delle lievissime increspature: sono i germi da cui, nell’evoluzione, sono nati le galassie, le stelle e i pianeti. Se quelle increspature non ci fossero state l’Universo si sarebbe espanso come una gigantesca bolla uniforme di idrogeno, priva di vita; ma se quelle increspature fossero state più forti, l’evoluzione non avrebbe prodotto stelle e pianeti, ma buchi neri, e l’Universo sarebbe stato altrettanto privo di vita.
Concludono entrambe gli scienziati, citando loro illustri predecessori: il mistero più grande dell’Universo è che, nella sua quasi inimmaginabile vastità, è intellegibile.