Non più di tre anni fa, un articolo di due brillanti e influenti ricercatori, Cristoph Koch e Giulio Tononi, riproponeva la domanda classica della fantascienza moderna: può una macchina essere dotata di coscienza? Nell’articolo i due autori rispondevano entusiasticamente di sì, prevedendo un futuro non tanto lontano in cui sarà possibile creare robot coscienti e perfino trasferire la propria “coscienza” su un banale computer casalingo. Aldilà degli scenari apocalittici evocati da un simile manifesto, la questione della coscienza è oggi al centro di molte ricerche nel campo delle neuroscienze e dell’intelligenza artificiale, sia per le profonde implicazioni etiche che porta con sé ma soprattutto per la sua natura misteriosa che, almeno fino ad oggi, l’ha resa inaccessibile ai metodi scientifici classici. Ma che cos’è realmente la coscienza? È possibile definirla in modo chiaro? È possibile rintracciarla in qualche punto preciso del nostro cervello?
Queste domande sono state al centro del simposio internazionale “Brain, Mind and Language. The mystery of the unity of self” organizzato da Euresis a San Marino a fine agosto. Nello spirito dei precedenti simposi organizzati dall’associazione, ai lavori hanno partecipato nove relatori provenienti da un arcobaleno di discipline diverse (dalla teologia alla neurochirurgia, passando per la fisiologia, la linguistica, la cibernetica e la psicologia cognitiva).
Qual è quindi la natura della mente? È possibile ricondurre l’intera esperienza individuale all’interazione tra le cellule nervose del nostro cervello? Vista la natura così profonda e coinvolgente di queste domande, la varietà di approcci e i linguaggi ha aiutato a mantenere un orizzonte ampio, per evitare di costringere la mente e l’Io nei paradigmi soffocanti del riduzionismo, scientifico o filosofico che sia. Certo non è stato sempre facile riuscire a capirsi e a dialogare, ma questo simposio ha costituito un primo passo verso una visione più organica della conoscenza.
Gli interventi di Mauro Ceroni, neurologo dell’Università di Pavia, e di monsignor Gianfranco Basti, decano della facoltà di Filosofia dell’Università Lateranense, hanno evidenziato come la contrapposizione cartesiana tra res cogitans e res extensa sia oggi impossibile da sostenere, sottolineando invece come corpo e mente siano intimamente compenetrati ma contemporaneamente non riducibili l’uno all’altro. Questa visione non è stata del tutto condivisa dagli psicologi Jonathan Schooler e John Cacioppo, rispettivamente dell’Università della California Santa Barbara e dell’Università di Chicago, i cui studi riguardano la delicata relazione tra cervello e coscienza. Gli esperimenti di Schooler hanno messo al centro la prospettiva individuale come fattore decisivo nella percezione del mondo; l’esperienza soggettiva è fondamentalmente impenetrabile agli strumenti della neuropsicologia, impossibile da conoscere se non dalla prospettiva di chi la vive in prima persona. Estremamente interessante è il legame che Schooler ha tratteggiato, ovviamente in un contesto speculativo, tra la coscienza individuale e lo scorrere del tempo: la coscienza come mezzo che permette all’uomo di muoversi lungo la dimensione temporale dell’universo.
Quasi opposto è l’approccio di Cacioppo, uno dei fondatori della social neuroscience, che ha analizzato l’impatto delle interazioni con altri esseri umani sul funzionamento del nostro sistema nervoso. Per Cacioppo, la nostra caratteristica di specie spiccatamente sociale ha modellato l’architettura del nostro cervello, creando le premesse per una rappresentazione del mondo dinamica, che continuamente si modifica per tenere conto delle (impreviste) azioni degli altri. La teoria si spinge anche oltre, proponendo una visione della coscienza come epifenomeno, ossia come una mera manifestazione illusoria della mente, negando di conseguenza l’esistenza di libero arbitrio. Quello che siamo sarebbe quindi interamente determinato dai nostri geni, dalla nostra architettura neurale e dall’interazione con il resto del mondo e con gli altri.
Luigi Agnati, professore di fisiologia umana all’Università di Modena, ha invece proposto un suggestivo viaggio per illustrare il ruolo del flusso di coscienza interiore nelle patologie psichiche, in compagnia non solo di risultati scientifici ma anche alcuni grandi scrittori, pittori e poeti, come Leopardi e Caravaggio. Durante il suo intervento Agnati ha mostrato come sia sufficiente un sottile squilibrio per far sì che il dialogo con il proprio io si trasformi, da tratto distintivo e positivo dell’essere umano, a terreno fertile per lo sviluppo della schizofrenia e di altri disturbi della personalità.
Un aspetto cruciale, sebbene non esclusivo, dello stato di coscienza è la capacità, esclusivamente umana, di esprimersi in un linguaggio, inteso come la facoltà di comunicare attraverso simboli. Andrea Moro, professore presso lo IUSS di Pavia, ha introdotto i risultati più recenti nel campo della neurolinguistica, supportando l’ipotesi che la capacità di generare e comprendere un linguaggio non si sia forgiata attraverso l’interazione con il mondo circostante, ma sia invece presente ab initio in alcune reti neuronali della nostra corteccia cerebrale.
Nella stessa direzione vanno i risultati ottenuti da Lorenzo Magrassi, neurochirurgo dell’Università di Pavia, su pazienti affetti da agrafia (improvvisa incapacità di scrivere pur in assenza di disturbi del linguaggio parlato). Mantenendo i pazienti svegli e coscienti durante le operazioni neurochirurgiche, i ricercatori di Pavia sono riusciti a stimolare direttamente diverse aree della corteccia cerebrale, potendo poi osservare direttamente le reazioni dei pazienti. In questo modo si è individuata un’area della corteccia assegnata in modo specifico al controllo della scrittura, scoperta che getta ancora più mistero sulla natura del linguaggio umano. Infatti, essendo la scrittura una conquista umana recentissima, la presenza di un’area specializzata nell’elaborazione della parola scritta non può essere dovuta a cause evolutive.
Al centro dell’intervento di Giuseppe Trautteur, fisico all’Università Federico II di Napoli, è il rapporto sofferto e misterioso tra la percezione unitaria dell’Io umano e la natura biologico-materiale del cervello, fatto di molteplici unità interconnesse, i neuroni. C’è un salto, un abisso ancora (chissà, forse per sempre) inaccessibile tra questi due livelli di descrizione della realtà. Del resto l’esperienza che ciascuno di noi fa in questo momento del tempo e dello spazio è certamente unica e irripetibile. Anche ammettendo di poter rintracciare tutti i correlati neuronali di qualsiasi esperienza individuale, non si potrebbe mai sostituire l’esperienza con un modello. Per fare un esempio, si pensi al progettista di un ponte, che ne conosce perfettamente le caratteristiche fisiche e le proprietà dinamiche. Ebbene, anche calcolare tutte le forze che agiscono sul ponte all’ora del tramonto non equivarrebbe mai, per il nostro ingegnere, ad una passeggiata sulle arcate del ponte, con il sole rosso all’orizzonte. Ci sentiremmo di affermare, perciò, che anche conoscere la natura di un processo biofisico e saperlo descrivere con precisione non potrà mai sostituire l’esperienza diretta di un essere umano vivente.
È per questa ragione che ha suscitato particolare entusiasmo l’intervento del teologo e sacerdote spagnolo Javier Prades, che ha ricordato come la certezza su cui poggia una teoria scientifica abbia bisogno di un fondamento solido, radicato nella ragione e che abbracci tutta l’esperienza umana. Solo una certezza così può indirizzare l’indagine scientifica verso la propria natura originale, che è ricerca dei nessi di verità e di significato negli avvenimenti che osserviamo accadere nella realtà.
Allo stesso modo, le certezze che nascono dalla scienza non minano le certezze di un cristiano, ma sono anzi una porta spalancata alla verità e al destino perché, ha affermato Benedetto XVI, rivelano “l’esistenza di una corrispondenza profonda tra la nostra ragione soggettiva e la ragione oggettivata nella natura”. Questa sete di verità ultima ha già un’ipotesi di risposta nella storia, nata duemila anni fa con la vita e la resurrezione di Cristo, e viva anche oggi nel magistero del Papa e nella Chiesa.
Vale certamente la pena, allora, di ascoltare anche la voce di chi considera l’Uomo e il suo cuore fatti a immagine e somiglianza di un Altro. Come scriveva don Luigi Giussani, proprio a proposito della coscienza: “Seguo la mia coscienza”, si dice; il che significa: seguo la mia coscienza come il luogo in cui nasce il criterio e la misura delle mie azioni, dei miei giudizi. Così la coscienza è un pozzo soffocato. Per la tradizione cristiana la coscienza è il luogo dove un’altra voce, la voce di un Altro, si ascolta.