Secondo una certa visione, molto diffusa, delle teorie evolutive l’origine dell’uomo può essere spiegata attraverso il suo semplice sviluppo biologico; così la distinzione fra animale e uomo è sempre più sottile e spesso addirittura negata. Vale la pena però andare un po’ più a fondo della questione, mettendo a confronto i principali risultati delle diverse discipline coinvolte in uno dei temi più attuali del dibattito culturale: è quanto è avvenuto nei giorni scorsi a San Marino, al Simposio Internazionale organizzato dall’Associazione Euresis in collaborazione col Meeting di Rimini, con la Fondazione Ceur e con la stessa Repubblica di San Marino.



Il titolo, “L’evoluzione biologica e la natura dell’uomo”, dà già un’idea dell’impresa affrontata, che si è sviluppata nell’approfondimento del concetto di evoluzione biologica e nella ricerca di una caratteristica che distingua l’uomo come tale. Un tema complesso, che richiede una conoscenza profonda sia delle scienze naturali sia delle scienze umane; infatti, erano presenti esperti di biochimica, biologia, antropologia, linguistica, filosofia e teologia. Tuttavia, la straordinarietà di questo meeting non è consistita soltanto nell’impostazione interdisciplinare, ma soprattutto nella forma con cui il convegno è stato ideato. Come ha detto uno degli organizzatori, Marco Bersanelli, «questo meeting è stato un esperimento che ha cercato di dare a professori di diverse materie e a un piccolo gruppo di studenti un’occasione per indagare il tema in un clima lontano dal formalismo accademico». 



All’inizio del programma si è affrontato direttamente il concetto di “evoluzione”. La relazione di apertura ha suscitato grande stupore: Scott Gilbert, professore di biologia al Swarthmore College (Usa), raccontando della sua ricerca nell’ambito della biologia evolutiva ha capovolto la concezione dominante dell’evoluzione come lotta del singolo per la sopravvivenza. Le ultime scoperte indicano che, per lo sviluppo di nuove caratteristiche e nuove specie, è fondamentale la mediazione di organismi simbiotici. La formazione del guscio della tartaruga, per esempio, avviene grazie alla presenza di tali microorganismi; e addirittura sono sempre loro che sembrano essere stati cruciali per lo sviluppo della pluricellularità.  Sorprendentemente, il 90% delle cellule del nostro corpo è costituito da microorganismi simbiotici, i quali assicurano, tra l’altro, il funzionamento del sistema immunitario. 



Perciò, paradossalmente, il sistema che distingue tra “proprio” ed “estraneo” è un sistema controllato da organismi “estranei”. La dinamica dell’evoluzione, quindi, non è “the survival of the fittest”, ma la sopravvivenza grazie alla collaborazione con altri organismi. Evidentemente, queste scoperte non solo ribaltano la concezione dell’evoluzione, ma suscitano anche domande che vanno oltre, quali: Che cosa costituisce un individuo? La concezione sbagliata che avevamo dell’evoluzione ha influenzato la nostra autocoscienza, contribuendo all’individualismo che domina la nostra cultura?

Il contributo  di Giorgio Dieci, professore di biochimica dell’Università di Parma ha, a sua volta, illustrato la complessità di un organismo vivente; evidenziando che neanche l’analisi più precisa dei processi chimici permette di dedurre la natura della vita che è caratterizzata da un senso di unità, da un esperienza interiore irreducibile. 

La seconda parte del simposio era dedicata più esplicitamente alla natura umana. Ian Tattersall, professore emerito di antropologia dell’American Museum of National History a New York, ha offerto un approccio storico al tema, mettendo in luce che l’homo sapiens non dimostra solo un “di più” quantitativo rispetto ai precedenti gradi di sviluppo, ma che con l’uomo si introduce una novità radicale: una capacità simbolica che si esprime, per esempio, in dipinti, musica,  culto dei morti e soprattutto nell’invenzione di un linguaggio. 

Resta la difficoltà di definire delle proprietà unicamente umane, dal momento che la ricerca biologica e psicologica ha rivelato una capacità simbolica rudimentale anche negli primati: anch’essi sono in grado di imparare e di usare simboli; e sono capaci di riconoscersi allo specchio. Definire una differenza qualitativa e non soltanto quantitativa partendo dalle capacità linguistiche o riflessive dell’uomo risulta perciò difficile. 

È stata la affascinante relazione di Andrea Moro, professore di linguistica a Pavia, a offrire un possibile accenno di risposta: le sue ricerche hanno dimostrato che la grammatica umana ha come caratteristica necessaria la possibilità di inserire frasi secondarie fra un soggetto e un verbo per infinite volte. In un esperimento Moro ha mostrato che l’applicazione di una grammatica impossibile (che quindi non permette un inserimento infinito) non è “processata” come lingua nel cervello e comporta – contrariamente all’effetto di una grammatica possibile – una disattivazione dell’area di Broca (l’area responsabile di molti compiti linguistici). Curiosamente i primati – nonostante una capacità simbolica notevole – non sono in grado di imparare questa regola. Sembra, perciò, che la capacità linguistica dell’uomo non rappresenti soltanto un miglioramento quantitativo, ma sia proprio la capacita di fare un uso infinito di un mezzo finito.

L’intervento finale di Costantino Esposito, professore di storia della filosofia all’Università di Bari, ha evidenziato in modo chiaro quel punto cruciale che resiste a una riduzione del uomo ad animale intelligente: l’uomo è un essere che pone domande, perché è alla ricerca di un significato; è un essere che non ha solo bisogni ma anche desideri, che non possono semplicemente essere soddisfatti ma che crescono proprio nell’esperienza di una risposta. Infine, l’uomo è un essere capace di concepire il nulla, cioè è un essere cosciente della sua contingenza; e questa coscienza suscita la domanda che sta all’inizio della ricerca scientifica: perché esiste qualcosa piuttosto che il nulla?

Questa coscienza della propria finitezza e la finitudine delle cose è il segno più evidente che l’uomo è in rapporto con la totalità delle cose: con l’infinito.  Ed è solo questo legame, questa traccia d’infinito, che spiega tutte le proprietà cosiddette umane – la musica, l’autocoscienza, la capacità simbolica – la cui somma però non riescono a spiegare l’unicità del uomo. La natura umana è rapporto con l’infinito e questo è un salto irreducibilmente qualitativo, perché non si può essere capaci di “un po’ di infinito”.

Per comprendere che cos’è stato un simposio come questo è comunque insufficiente parlare solo di contenuto. Bisogna dire che è stato innanzitutto un incontro fra persone che avevano lo stesso desiderio di verità. Come ha notato al termine uno dei professori presenti, quei giorni sono stati una scuola di umiltà: lo scopo non era difendere una propria posizione o dimostrare una propria bravura, ma era evidente il desiderio di tutti di imparare. 

Questo desiderio di andare a fondo alla questione senza ridurla alla propria comprensione ha generato un clima di lavoro che dominava addirittura durante i pasti; ma anche un clima di amicizia, creando nuovi rapporti di collaborazione. Tanto è vero che il desiderio di renderne partecipi più persone possibili, tre anni fa ha fatto nascere la rivista online euresisjournal, dove vengono pubblicati gli atti dei simposi, con l’intento di trasmettere in modo più semplice e profondo la natura e lo spirito dei raduni: la scoperta di essere sulla stessa strada nella grande avventura della scienza e di voler quindi continuare il dialogo.

Senza nascondersi il fatto che, comprensibilmente, l’interdisciplinarità e quindi la difficoltà nella comprensione reciproca, era sentita spesso come un disagio. Ma – come ha commentato Bersanelli – «questo disagio è il segno di una tensione a non ridurre la questione. Perché se davanti a una tale complessità si avesse la sensazione di avere compreso tutto, si potrebbe essere sicuri di non avere toccato la natura del problema che, letteralmente, è infinito».