La scoperta della struttura molecolare del DNA, pubblicata da Watson e Crick proprio sessant’anni fa, è indubbiamente una pietra miliare nella storia della Biologia, che si impose come geniale punto di arrivo di scoperte sul DNA meno note ma altrettanto importanti, per esempio quella di Avery, MacLeod e McCarty che nel 1943, grazie a un famoso esperimento, dimostrarono che il DNA è la macromolecola biologica portatrice di informazione genetica. In particolare, quello che fu chiaro nel 1953 è che la struttura a due filamenti polinucleotidici fra loro complementari conferisce al DNA una proprietà essenziale per l’ereditarietà: la possibilità di duplicazione in due molecole identiche per un numero indefinito di volte.
Emerse sempre più chiaramente, in seguito, come la macromolecola del DNA porti scritte nella sua struttura chimica, stoccate in forma stabile, fruibile e perennemente duplicabile, una quantità e molteplicità impressionante di istruzioni deputate alla sintesi controllata di RNA e proteine, istruzioni senza le quali nessun vivente potrebbe essere quello che è, senza le quali anche l’uomo non sarebbe più tale. Proprio per questo, è difficile immaginare una scoperta che più di questa abbia influenzato e influenzi il modo in cui l’uomo percepisce se stesso: come individuo, avente una storia genetica legata al DNA nell’ambito della sua specie; e come membro di una specie, avente una origine comune con quella di tutte le altre specie viventi, lungo una storia di cui è ancora il DNA a portare le tracce.
Che attrattiva per noi, costantemente in cerca di spiegazioni definitive, totali, poter posare finalmente lo sguardo su qualcosa di così piccolo, su una specie molecolare la cui massa complessiva è trascurabile rispetto a quella del nostro corpo, e in cui tuttavia ci sembra di poter leggere tutto quello che siamo, quasi il nostro principio essenziale; e che vertigine il pensiero che si tratta di un normale oggetto chimico, di un polimero organico che possiamo, con gli strumenti della chimica e dell’enzimologia, smontare, rimontare, amplificare, ricombinare, mutare, persino sintetizzare ex novo!
Nella percezione comune, la grande varietà di forme viventi generatasi nel corso dell’evoluzione viene posta in stretta corrispondenza, e quasi fatta coincidere, con la varietà delle sequenze di DNA, dei corredi genetici (genomi) tipici di ogni specie vivente: a tal punto che il DNA è venuto ad essere considerato come il principio istruttore di ogni organismo, ciò in base a cui esso viene costruito, ciò che con rigore deterministico fa essere ogni organismo quello che è.
Non è comunemente percepito, tuttavia, quanto questo modo di vedere sia erroneo. Il DNA di per sé non organizza, non istruisce niente. Il DNA non è un punto di partenza per nessun organismo, per nessuna vita. Il DNA considerato al di fuori di una cellula è una molecola inerte. Le istruzioni scritte nel DNA sono tali solo nello straordinario contesto che è la cellula vivente. E da dove prende essere, forma, vita ogni cellula? Non da un DNA, ma innanzitutto da un’altra cellula.
Il bruco e la farfalla in cui esso si trasforma hanno lo stesso identico corredo di DNA in tutte le cellule del loro corpo: perché sono diversi? In ognuno di noi i neuroni, le cellule stupefacenti di cui è intessuto il nostro cervello, e gli apparentemente più semplici fibroblasti, le cellule che producono e strutturano il nostro tessuto connettivo, hanno gli stessi cromosomi che portano scritta la stessa sequenza di DNA, per un totale di circa 6 miliardi di lettere che compongono milioni di “parole”, il nostro corredo di istruzioni. Che cosa rende allora così diverse, nella struttura e nella funzione, queste cellule?
E ancora: tutte le cellule del corpo di un vertebrato derivano da un’unica cellula iniziale, per replicazioni successive e concomitante acquisizione, da parte di alcune cellule, di caratteristiche che a mano a mano le differenziano dalle altre. Il DNA non cambia, ma cambiano le forme delle cellule, le loro proprietà, si formano tessuti, organi tanto diversi quanto un cuore e un cervello, si formano organismi completi con le loro forme spesso fantastiche, che talvolta ci appaiono come l’incarnazione stessa della bellezza… Da cosa dipendono questi eventi continui di differenziamento, di acquisizione e mantenimento di forme? Perché, in un embrione, particolari gruppi di cellule sono, da un certo momento in poi, predestinati a dare origine a certe strutture? Che cosa succede in quel momento, visto che il DNA è lo stesso prima e dopo quell’evento determinante? Dove è scritta la predestinazione di certe cellule, la loro capacità, da un certo momento in poi, di indurre nuovi destini in sé e nelle cellule adiacenti?
Certo non nella sequenza del loro DNA, che non cambia. Questi destini dipendono da ciò che le cellule hanno sperimentato in un certo microscopico luogo per un certo brevissimo arco di tempo. Ma che cosa può sperimentare una cellula? Dentro di sé, il proprio contenuto: proteine (le macromolecole “di costituzione complicata e meravigliosa” che affascinarono il Thomas Mann de La montagna incantata), zuccheri, lipidi, nucleotidi semplici e ciclici, sali, ioni potassio, calcio, magnesio… Fuori da sé, ogni cellula sperimenta la presenza di altre cellule, il contatto diretto con cellule vicine, quello indiretto con cellule lontane, mediato da segnali chimici o elettrici. Una inimmaginabile combinazione di particolari concentrazioni di innumerevoli specie chimiche fuori e dentro le cellule; le variazioni continue di questo profilo di concentrazioni; la comunicazione fra molteplici cellule vicine o lontane, ognuna delle quali influenzata dal suo ambiente interno ed esterno: tutto questo ci dà una pallida idea di quale sia il supporto sfuggente, la lingua abissalmente diversa da ogni lingua umana, sul quale e mediante la quale possiamo immaginare scritto “il libro della vita”.
Nel 2000, in occasione dell’annuncio del completato sequenziamento dell’intero DNA genomico umano, l’allora Presidente degli Usa parlò di un passo fondamentale verso la comprensione del “linguaggio usato da Dio nel creare la vita”. Impossibile negare l’importanza di quella conquista, ma non deve sfuggire che noi, come ogni altro essere vivente, siamo molto di più, siamo abissalmente più dell’esecuzione di istruzioni che il nostro DNA contiene. Questo è già vero nell’ambito rigoroso delle scienze biologiche; tanto più lo diventa se consideriamo quell’interiorità e libertà e desiderio di compimento che ognuno di noi sa, per esperienza immediata, essere il più imprevedibile, irriducibile e, nello stesso tempo, reale contenuto del “libro della vita”.