Negli Stati Uniti e non solo è dietrofront sulla cultura woke, che per qualche anno è stata di tendenza. Lo slogan Get Woke, Go Broke è stato stampato su migliaia di cartelloni e magliette, ma adesso, come evidenziato in un editoriale di Marina Terragni pubblicato su Il Foglio, sembra essere tutto finito. Non c’è più spazio per sirenette nere, bagni gender neutral e altri simboli della cancel culture.
Un sondaggio realizzato da Newsweek ha rivelato che il 72% delle persone tra i 25 e i 34 anni, proprio quella categoria che è stata in prima linea per la lotta alla giustizia sociale, ora non condivide più questi valori. “Il woke ci rovina”, questo è il loro parere, al pari dei più adulti. Anche il 62% dei sostenitori di Joe Biden, uno dei rappresentanti di questa cultura, ha cambiato idea. A dimostrare la fine di un’era, tuttavia, non sono soltanto le statistiche in questione, ma anche i fatturati delle aziende.
Cultura woke, è dietrofront: 72% dei giovani ha cambiato idea, aziende in difficoltà
Il business della cultura woke è giunto al termine. La Disney è l’emblema, del fenomeno, dato che ha bruciato miliardi di dollari con film basati su questi valori, che si sono rivelati un flop. Anche Pixar sembra destinata a questo, così come Prime Video e Mgm Studios. Non è coinvolto però solo il settore cinematografico. Nella cosmetica è successo a Maybelline e nel food a Anheuser-Busch, che produce birra. Entrambi avevano scelto testimonial appartenenti alla comunità LGBT+. E ancora Nike, Target e Chick-fil-A.
I brand in questione adesso si ritrovano a rivedere le proprie strategie di marketing e a domandarsi perché hanno commesso determinati errori. “Si trattava di mettere sotto una lente di ingrandimento i segnali deboli per stupire, meravigliare, essere i primi a raccontare comportamenti e atteggiamenti inediti”, ha spiegato Giuseppe Minoia, presidente onorario di GfK Eurisko. Qualcuno, però, ne sta pagando le conseguenze.