A me sembra che noi adulti, oggi, non siamo più in grado di educare i nostri figli. Credo che sia in crisi l’idea stessa di educare, intesa nel senso di “dirigere” una persona più giovane a trovare la sua strada.
Vorrei partire da un esempio di questa nostra tendenza malata al non-educare-dirigere: l’ora di rientro serale. Dare o non dare un’ora di rientro serale a figli adolescenti, e quale ora? Da anni vedo intorno a me che ad alcuni ragazzi, anche di quattordici o quindici anni, è permesso tornare alle cinque del mattino, o non tornare affatto, dormendo da amici. Perché?
Penso si tratti di un misto di acquiescenza, complicità e mal inteso amore: vogliamo che i nostri figli siano felici, che non patiscano intoppi, che si divertano, che non abbiano attriti con noi genitori e soprattutto che siano uguali agli altri. E gli altri, almeno così pare, tornano tutti alle cinque! Di qui approdiamo a una sorta di sentimento dell’ineluttabile, che a me sembra l’aspetto più deleterio e ignobile dei nostri tempi. È ineluttabile che i figli tornino tardi. Così come sono ineluttabili lo spinello, il naso inanellato, il fatto che a scuola non si studi, ecc. Riassunto: è ineluttabile avere dei figli così.
Ma perché questa rassegnazione a priori, questo lasciare il campo prima ancora che arrivi il nemico? E se il nemico non arrivasse mai? Se ce lo fossimo, per paura, inventato noi? E se anche esistesse, siamo sicuri di non saperlo combattere e vincere? Perché crediamo così poco nel nostro ruolo, nella nostra voce autorevole?
Teniamo in sospeso queste domande e facciamo entrare nel discorso don Giussani e il suo libro. Ho incontrato solo ora nella mia vita Il rischio educativo e mi hanno colpito soprattutto due idee: molto forti, molto sconvolgenti per i tempi in cui viviamo, molto universali; idee, voglio dire, che possono e devono riguardare tutti, cattolici e non, laici e non, direi la comunità degli esseri umani in quanto tali.
La prima idea è la centralità che don Giussani attribuisce alla persona: l’educatore è innanzitutto una persona, e educare è comunicare se stessi, proporre sé come persona in modo totale, chiaro, leale, coraggioso. Questo significa prima di tutto che per educare bisogna essere una persona: bisogna esserlo diventati pienamente. Per educare, bisogna avere un’idea molto precisa della vita, una vera e propria visione del mondo! Solo allora ci si potrà proporre (pur nella consapevolezza dei propri limiti e dei propri errori) come modelli da seguire, come maestri, e si potrà… insegnare! Cioè indicare una via: consegnare al ragazzo un sacco pieno e non vuoto. Pieno di quello che di meglio l’adulto ha vissuto e scelto nella vita: la sua “tradizione”, come la chiama don Giussani.
A noi oggi piace pensare che la libertà equivalga a non porre limiti. E così preferiamo passare al giovane un sacco vuoto, che egli possa riempire come gli piace, senza nessuna indicazione che anche solo minimamente lo costringa: per questo siamo per un’educazione per così dire formale, non sostanziale. Passiamo metodi, non contenuti: basti pensare al pedagogismo che ha ispirato le recenti riforme scolastiche.
Avere una visione del mondo vuol dire avere trovato un senso alla vita. Certo per don Giussani vuol dire avere trovato Cristo.
I laici sono dunque spacciati? Solo i cattolici sono in grado di educare? Spero proprio di no. Ed è qui che farei intervenire la seconda idea forte che personalmente ho incontrato nel libro di don Giussani: l’idea di destino. È l’idea che il giovane che noi ci proponiamo di educare abbia un destino, e che in fondo questa sia la ragione stessa per cui lo educhiamo.
L’idea di destino forse ci può aiutare tutti. Certo, è già una visione religiosa della vita. Ma è sicuramente più universale. E poi, forse può esistere una visione religiosa anche nel mondo laico, perché no? Pensiamo a Ulisse, l’uomo che vaga per il mondo: ci mette vent’anni a tornare a casa, ma ha sempre in mente Itaca, lì vuole tornare; ha un’idea di destino, cioè di ritorno. E Itaca è sicuramente un valore neutro (laico?), cioè non segnato religiosamente in alcun modo: tornare a Itaca vuol dire voler riprendere il proprio ruolo di re e voler ritrovare i propri affetti familiari, nient’altro.
C’è un elemento bellissimo nella parola destino: l’idea di viaggio. Destino viene dal verbo destinare: mandare a un indirizzo preciso, indirizzare, far arrivare a una meta. Il giovane ha un destino nel senso che deve ritornare al luogo che è il suo: deve diventare se stesso, ri-conoscersi. Allora educare può avere un senso! Allora educare, dirigere e destinare sono tre verbi che vogliono dire la stessa cosa! Meraviglia: tu adulto educhi il giovane perché vuoi dirigerlo a trovare la strada, la sua natura, sé, il suo ruolo, ciò per cui è destinato! La vita diventa, per il giovane, immediatamente dotata di senso: ha una meta. La vita è un viaggio, è un ritorno, e lui è di nuovo l’homo viator.
Questa, secondo me, è una proposta che tutti possiamo accettare. Non è solo cristiana, è umana nel senso più alto del termine. Se hai l’idea di destino, hai l’idea che tu come individuo sei inserito in un disegno più grande che coinvolge anche gli altri.
Ora torniamo al piccolo, microscopico problema dell’orario di rientro serale. Tornare tardi vuol dire non dormire e quindi, il giorno dopo, non essere in grado di vivere una giornata normalmente desta e produttiva. Permettendo a nostro figlio di tornare così tardi, noi di fatto permettiamo che lui il giorno dopo, sia che dorma tutto il tempo sia che sonnecchi sui libri o al lavoro, non usi al meglio la sua mente. Noi permettiamo che il giorno dopo per lui sia una giornata persa. Oppure non la riteniamo persa?
Ecco dunque, che, dietro l’innocuo esempio dell’ora di rientro, sta la domanda per eccellenza: quale senso ha per noi la vita, c’è un destino o vaghiamo nel buio? Se noi non abbiamo una visione religiosa della vita, dormire tutto il giorno non ci sembrerà tempo perso. Se noi abbiamo una visione religiosa, invece sì. Se noi crediamo che ci sia un’Itaca da raggiungere, allora ci deve importare moltissimo rimanere al meglio delle nostre facoltà, fisiche, mentali e morali. Ci verrà naturale dirigere i figli secondo la nostra idea e quindi verso un certo luogo preciso, che ci è molto chiaro: il luogo che piace a noi, e che ci piace non per capriccio, ma perché è fatto della nostra stessa sostanza, che direi contiene il perché della nostra vita. E se il perché della nostra vita non prevede che si torni alle cinque del mattino e si dorma tutto il giorno, allora dovremo vietare questo a nostro figlio. In nome della persona che siamo.
Tutto qui, credo che non dovremmo fare altro. Solo accettare che nostro figlio, nonostante tutto quello in cui crediamo noi e che con forza gli abbiamo proposto, è davvero un mistero. E tocca a lui scoprirlo. Noi, semplicemente, crediamo che lo scoprirà meglio se gli avremo dato qualche indicazione precisa. Ad esempio un orario di rientro…



Tratto da “Atlantide – un mondo che fa parlare altri mondi”, Marzo 2006

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