Emanuele Severino su un punto ha ragione: la tecnica e’ l’orizzonte assoluto del nostro tempo.
Tutti abbiamo la convinzione che sia possibile manipolare, cambiare, utilizzare la realtà, le “cose”. Fino a 20-30 anni fa questa realtà era una realtà materiale, la natura esterna; oggi è anche una realtà vivente, la natura interna. La scoperta del codice genetico e i progressi della biochimica e dell’ingegneria genetica aprono la strada a nuove avventure, impensabili nel passato. Si possono pre-selezionare embrioni sani, scartando quelli portatori di malattie ereditarie, come è accaduto recentemente in Inghilterra. Si può clonare un essere vivente. Si possono congelare embrioni, ritardarne lo sviluppo.
Tutto ciò implica conseguenze, sul piano esistenziale, di cui la biologia e la medicina non si curano. Quale coscienza di sé avrà un uomo che scopre di essere il frutto di una selezione eugenetica? Che si accorge, nel caso di una ipotetica clonazione, di essere il doppione di una vita già vissuta, privato della novità della sua vita da un “designer” che lo ha progettato? Problemi nuovi, che intaccano alla radice l’identità e l’autonomia della persona, su cui si interroga uno dei più grandi pensatori tedeschi, Jürgen Habermas, nel suo “Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale”. Habermas, progressista ed illuminista, ultimo erede della “Scuola di Francoforte”, vicino alle posizioni dei Verdi tedeschi, osserva che “se si accetta come normale la generazione e l’impiego di embrioni ai fini della ricerca medica, si trasforma anche la percezione culturale della vita umana prenatale, con il risultato di rendere sempre meno affilato il senso morale che stabilisce i limiti entro cui far valere il calcolo costi-benefici”. L’orizzonte proprio della tecnica è quello di una “ragione strumentale” che non conosce confini. La sperimentazione, in nome del benessere presente o futuro, richiede i suoi capri espiatori, le sue vittime. Habermas non è credente. Si rende conto, però, come l’erosione dei valori morali e del senso della vita propri della tradizione cristiana, un’erosione provocata da una secolarizzazione massiccia, incalzante, sta provocando un vuoto, un enorme buco nero in cui prende forma l’alleanza tra tecnica e nichilismo. La sistematica demolizione di ogni ideale, provocata da una cultura abile nel negare quanto incapace di costruire, porta al primato indiscusso della tecnica, del pragmatismo tecnocratico. In vista del benessere, della “qualità” della vita, ogni mezzo diviene lecito.
Per porre un limite a questa prospettiva, che all’autore tedesco ricorda “un allevamento razziale e selettivo dell’uomo”, Habermas distingue tra “inviolabilità” della persona e “indisponibilità” della vita prenatale. Quand’anche quella vita non fosse “ancora” persona, essa va comunque protetta poiché è la premessa dell’essere personale, è il presupposto del suo futuro. Negare questa indisponibilità, utilizzare la vita embrionale come una semplice cavia, è assuefarsi ad una visione strumentale che non arretrerà nemmeno di fronte alla dimensione personale. In un rinnovato dialogo tra illuminismo e religione si tratta di difendere quelle posizioni, bio-antropologiche, che permettono al soggetto di concepirsi come libero, autonomo, in condizione di uguaglianza con altri. Sono le condizioni che stanno al centro del dettato politico, giuridico, culturale della modernità. Condizioni che una sperimentazione selvaggia tende a rimuovere, a delegittimare, rendere problematiche. Una eugenetica positiva, tesa a selezionare uomini “migliori”, dotati di caratteri eccellenti, come può giustificarsi in un modello democratico? Dovremo procedere ad una sorta di lotteria per attribuire le vite geneticamente modificate ad alcuni rispetto ad altri?
L’anima malthusiana e darwiniana dell’eugenetica è il rischio paventato da Habermas. Un anima di “destra” che si fonda, con disinvoltura, sul sacrificio dei meno fortunati, dei non adatti, dei non perfetti, dei mal nati. L’ultima notizia in ordine di tempo è quella apparsa in un “piccolo” box del Corriere della Sera (06.06.06). Ian Wilmut, lo scienziato capo del team che nel 1996 ha clonato la pecora Dolly, auspica la clonazione “selettiva” di un embrione affetto da malattie ereditarie. L’embrione malato verrebbe poi scartato a favore di quello sano, il gemello buono al posto di quello “cattivo”. Un progetto “perverso” secondo la Prolife Alliance. Di fronte a queste prospettive è quanto meno sorprendente la disinvoltura con cui una parte della cultura progressista rinuncia, da noi, ad ogni disposizione “critica”. La sinistra, con alcune eccezioni, non pare comprendere come la salvaguardia dei valori illuministi richieda oggi un ripensamento generale. Non intuirlo denota un deficit culturale, l’anoressia degli intellettuali di Micromega paghi del “verbo” darwiniano. È quanto ha compreso invece il Papa per il quale il rapporto tra fede e ragione, cristianesimo e illuminismo, è un punto decisivo. L’insistenza con cui Benedetto XVI e la Chiesa richiamano i temi bioetici non è una battaglia di retroguardia, antimoderna, è una lotta progressista. Come sottolinea Habermas, è in gioco la modernità, la salvaguardia dei suoi valori minacciati dall’alleanza tra tecnica e nichilismo, il futuro della natura umana.
Tutti abbiamo la convinzione che sia possibile manipolare, cambiare, utilizzare la realtà, le “cose”. Fino a 20-30 anni fa questa realtà era una realtà materiale, la natura esterna; oggi è anche una realtà vivente, la natura interna. La scoperta del codice genetico e i progressi della biochimica e dell’ingegneria genetica aprono la strada a nuove avventure, impensabili nel passato. Si possono pre-selezionare embrioni sani, scartando quelli portatori di malattie ereditarie, come è accaduto recentemente in Inghilterra. Si può clonare un essere vivente. Si possono congelare embrioni, ritardarne lo sviluppo.
Tutto ciò implica conseguenze, sul piano esistenziale, di cui la biologia e la medicina non si curano. Quale coscienza di sé avrà un uomo che scopre di essere il frutto di una selezione eugenetica? Che si accorge, nel caso di una ipotetica clonazione, di essere il doppione di una vita già vissuta, privato della novità della sua vita da un “designer” che lo ha progettato? Problemi nuovi, che intaccano alla radice l’identità e l’autonomia della persona, su cui si interroga uno dei più grandi pensatori tedeschi, Jürgen Habermas, nel suo “Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale”. Habermas, progressista ed illuminista, ultimo erede della “Scuola di Francoforte”, vicino alle posizioni dei Verdi tedeschi, osserva che “se si accetta come normale la generazione e l’impiego di embrioni ai fini della ricerca medica, si trasforma anche la percezione culturale della vita umana prenatale, con il risultato di rendere sempre meno affilato il senso morale che stabilisce i limiti entro cui far valere il calcolo costi-benefici”. L’orizzonte proprio della tecnica è quello di una “ragione strumentale” che non conosce confini. La sperimentazione, in nome del benessere presente o futuro, richiede i suoi capri espiatori, le sue vittime. Habermas non è credente. Si rende conto, però, come l’erosione dei valori morali e del senso della vita propri della tradizione cristiana, un’erosione provocata da una secolarizzazione massiccia, incalzante, sta provocando un vuoto, un enorme buco nero in cui prende forma l’alleanza tra tecnica e nichilismo. La sistematica demolizione di ogni ideale, provocata da una cultura abile nel negare quanto incapace di costruire, porta al primato indiscusso della tecnica, del pragmatismo tecnocratico. In vista del benessere, della “qualità” della vita, ogni mezzo diviene lecito.
Per porre un limite a questa prospettiva, che all’autore tedesco ricorda “un allevamento razziale e selettivo dell’uomo”, Habermas distingue tra “inviolabilità” della persona e “indisponibilità” della vita prenatale. Quand’anche quella vita non fosse “ancora” persona, essa va comunque protetta poiché è la premessa dell’essere personale, è il presupposto del suo futuro. Negare questa indisponibilità, utilizzare la vita embrionale come una semplice cavia, è assuefarsi ad una visione strumentale che non arretrerà nemmeno di fronte alla dimensione personale. In un rinnovato dialogo tra illuminismo e religione si tratta di difendere quelle posizioni, bio-antropologiche, che permettono al soggetto di concepirsi come libero, autonomo, in condizione di uguaglianza con altri. Sono le condizioni che stanno al centro del dettato politico, giuridico, culturale della modernità. Condizioni che una sperimentazione selvaggia tende a rimuovere, a delegittimare, rendere problematiche. Una eugenetica positiva, tesa a selezionare uomini “migliori”, dotati di caratteri eccellenti, come può giustificarsi in un modello democratico? Dovremo procedere ad una sorta di lotteria per attribuire le vite geneticamente modificate ad alcuni rispetto ad altri?
L’anima malthusiana e darwiniana dell’eugenetica è il rischio paventato da Habermas. Un anima di “destra” che si fonda, con disinvoltura, sul sacrificio dei meno fortunati, dei non adatti, dei non perfetti, dei mal nati. L’ultima notizia in ordine di tempo è quella apparsa in un “piccolo” box del Corriere della Sera (06.06.06). Ian Wilmut, lo scienziato capo del team che nel 1996 ha clonato la pecora Dolly, auspica la clonazione “selettiva” di un embrione affetto da malattie ereditarie. L’embrione malato verrebbe poi scartato a favore di quello sano, il gemello buono al posto di quello “cattivo”. Un progetto “perverso” secondo la Prolife Alliance. Di fronte a queste prospettive è quanto meno sorprendente la disinvoltura con cui una parte della cultura progressista rinuncia, da noi, ad ogni disposizione “critica”. La sinistra, con alcune eccezioni, non pare comprendere come la salvaguardia dei valori illuministi richieda oggi un ripensamento generale. Non intuirlo denota un deficit culturale, l’anoressia degli intellettuali di Micromega paghi del “verbo” darwiniano. È quanto ha compreso invece il Papa per il quale il rapporto tra fede e ragione, cristianesimo e illuminismo, è un punto decisivo. L’insistenza con cui Benedetto XVI e la Chiesa richiamano i temi bioetici non è una battaglia di retroguardia, antimoderna, è una lotta progressista. Come sottolinea Habermas, è in gioco la modernità, la salvaguardia dei suoi valori minacciati dall’alleanza tra tecnica e nichilismo, il futuro della natura umana.