La libertà nel pensiero filosofico-politico
Il nesso tra libertà e liberalizzazioni ha un che di inconsueto nella riflessione filosofica e nella teoria, tanto della politica quanto dell’economia. La libertà viene intesa comunemente come un bene “politico”, ossia incardinata nella società politica e nei diritti naturali tout court. Eppure già Constant, la cui stella non cessa di brillare tra i pensatori di un liberalismo incompreso – rivoluzionario perché post tirannico e non reazionario – pensava, con Madame de Staël, a una libertà che fosse sorretta da istituzioni che contemperassero le passioni e i vizi dell’umano. E ben prima, nelle meditazioni sulla Persia che, dopo Montaigne, iniziavano la comparazione tra sistemi del vivere civile, Montesquieu comprendeva che il profilo istituzionale diveniva essenziale. La libertà non era e non è altro che un bene pubblico. Essa sta, da un lato, nella società civile come intesa da Ferguson, ossia in quello spazio primigenio della vita associata dove la proprietà privata è essenziale per costituire tale associazione in senso moderno. Dopo, soltanto dopo verrà il mercato, che all’inizio è assente nella riflessione fondativa dei teorici liberali e viene assorbito nella categoria del commercio: à la Montesquieu, appunto. E, dall’altro lato, sta – ecco l’arcano, il segreto dispositivo intellettivo che si disvela – nelle istituzioni che quella società civile regolano, scaturendo da essa. Tutto è compendiato in Rousseau, che concepiva la legge come regolatore ultimo delle volontà particolari, perché dinanzi a essa anche il sovrano doveva inchinarsi e perdere il suo potere, pena il non costituirsi della sovranità generale, che protegge la proprietà e rende tutti eguali dinanzi alla legge. E nelle sue costituzioni, quella corsicana e quella polacca, quando parla di economia, Rousseau parla di politica, parla di costumi, parla di eguaglianza e di disuguaglianza e di una distribuzione della ricchezza ben temperata, affinché la libertà non venga distrutta. Il nesso tra economia e libertà è presente nei classici del pensiero politico alle sue origini e se volessimo andare giù giù per le radici, vi troveremmo Aristotele e i suoi scritti sull’etica, che altro non sono che una meditazione sulle istituzioni di una civiltà che doveva liberarsi dalle fragilità dell’umano.
Liberalizzazione e riduttivismo economico

La liberalizzazione, nel pensiero novecentesco, è stata, invece, teoreticamente intesa solo nel quadro interpretativo dell’economico, oppure svincolandola dalla problematica della società civile e dalle istituzioni che da essa promanano. Di qui il circolo vizioso che si è instaurato: è un bene “politico”, ma viene trattato teoreticamente con i ferri del chirurgo economicistico, che lasciano ferite orribili e irrimediabili sul volto dell’essere. Infatti, nella teoria politica illuministica e post illuministica – a cui, non a caso, Rousseau, romantico, non appartiene, mentre vi appartiene Habermas, per esempio – il contrappasso all’economicismo è stato lo statalismo, che anche il liberalismo non ha mai superato, come rivela dinanzi a tutti la polemica sulle libertà di coscienza e sulle libere chiese (mentre essenziale è la libertà di coscienza, personale, antropologica…). Questo perché lo Stato è ancora inteso come demiurgo, superiore tanto alla società civile quanto alla persona. Ma andiamo con ordine e torniamo al riduzionismo. Da esso promana la decadenza teorica della riflessione sulla libertà, oscillante tra la vuota retorica liberal-statolatrica e il riduzionismo marginalista in economia. In tal modo essa è stata collegata unicamente a due, pur grandissimi temi, dell’umano vivere associato: la crescita economica e la proprietà; quest’ultima, tuttavia, intesa come difesa e affermazione del “terribile diritto”, quello del bene posseduto, anziché come fondamento di una società civile autonoma dallo Stato, pur non indipendente da esso. Il nesso è semplice: solo la competizione che nasce dalla liberalizzazione libera le forze per la crescita economica e la proprietà solo può diffondersi e irrobustirsi se ha luogo la liberalizzazione. La liberalizzazione è, nell’orizzonte teorico della concorrenza e nell’ipostatizzazione del mercato perfetto o quasi perfetto, la fondazione del diritto di disporre “liberamente” dei beni secondo le regole del diritto. Punto e basta. Si vedano i danni, in tal modo, prodotti dal riduzionismo economicistico e dall’ossessione paranoica proprietaria. La liberalizzazione non diviene istituzione, costruzione di costumi, educazione della persona, come era, per esempio, nella riflessione straordinariamente moderna di Hume. È intesa, invece, soltanto come vettore di aumento del Prodotto Interno Lordo e magari della produttività del lavoro e, dall’altro lato, come vettore della diffusione della proprietà, dimenticando – ed è qui la voragine che s’apre – il suo valore fondativo di una civilizzazione insostituibile, nell’osmosi che tale istituzionalizzazione instaura con lo Stato e quindi con la legge, senza annichilire la società civile.

La persona, fondamento della società civile e della proprietà
La proprietà moderna tempera le disuguaglianze, rende meno dura la società civile e rende morbide le istituzioni. È questo che coloro che oggi governano non comprendono: la persona è il fondamento della società civile e delle istituzioni della proprietà. Solo in tal modo si temperano le disuguaglianze create dalla società politica ed economica con il loro dispiegarsi. A questo pone rimedio non lo Stato, ma la società civile stessa, ricordiamolo anche e soprattutto ai liberali tout court oggi à la mode. E la società civile rifiorisce tramite le persone. Gli operai, il popolo, non è oggi in tutto il mondo capitalistico anche proprietario di case, di rendite finanziarie (viva iddio! Ché le possono possedere solo i ricconi?), di prodotti dei mercati? È persona intera e non silhouette marginalistica, come l’interpretano i marginalisti “di sinistra”, verrebbe da dire, segnando la loro lontananza tanto dal popolo quanto dalla teoria della libertà non illuministica, ma protoromantica e romantica (a cui appartiene anche il personalismo cristiano), fondata sulla persona e sulla società civile, e quindi non falsificabile in un fiat, purché si ragioni. Non è un caso che tutta la riflessione sulla libertà non abbia mai evocato il valore istituzionale della creazione di un mercato dei diritti della proprietà, come elemento fondante di una nuova, non economicistica, teoria della libertà, che strappi il concetto di proprietà dalla logica del possesso e la trasformi in istituzione civilizzatrice perché temperatrice dei guasti della civilizzazione – soi disant – e la proietti in quella della libertà come frutto della costruzione di istituzioni al crocevia tra società civile e Stato, tra persona morale e cultura delle umane aggregazioni sociali.

Per queste ragioni il nesso essenziale tra liberalizzazione e libertà, nonostante l’assonanza linguistica, è stato emasculato dal dibattito odierno. La maledizione crociana che deriva dal separare liberalismo e liberismo si è ritorta contro tanto i liberali quanto i liberisti, separandoli gli uni dagli altri. Ma soprattutto infliggendo una ferita profonda nel corpo della vita civile.



Coniugare liberalizzazione e libertà

È tempo di suonare le trombe e di richiamare all’ordinato disordine necessario per comprendere il compito che i giganti del pensiero sul vivere umano associato ci hanno assegnato: è tempo di iniziare a coniugare liberalizzazione e libertà.

S’intenda bene ciò che deve essere la liberalizzazione. Essa deve essere, in primo luogo – dove ha da esservi, ben inteso – liberalizzazione dei diritti di proprietà come strumento di accesso alla società civile. Tutte le persone che lo vogliono possano accedervi nelle forme più acconce, ossia con meno asimmetrie informative e sociali, con meno barriere all’entrata. Come? Tramite la creazione di mercati inclusivi e aperti e non esclusivi e oscuri, governati da una concezione del possesso inclusivo. Questo è il primo e fondativo orizzonte della liberalizzazione. Se i mercati non sono aperti, trasparenti, fondati sulla fairness, sono soltanto un veicolo che conduce alla loro stessa disgregazione via via che iniziano a operare, come dimostra l’esperienza storica.

Ciò che va compreso è il nesso tra liberalizzazione così intesa e le grandi tradizioni giusnaturalistica e contrattualistica della libertà, che debbono trovare una loro unità teorica di tipo nuovo. Tale nesso si comprende soltanto se si riflette sul tentativo secolare nella storia umana di allocare, secondo criteri non stocastici e non ingiusti, alcuni beni che circolano tanto nei mercati quanto nelle relazioni sociali.

Tali beni sono: il valore delle merci scambiate nelle economie monetarie; il merito personale che dovrebbe determinare relazionalmente i sistemi di premi e di punizioni per valutare il merito stesso, per giungere all’equa riproducibilità della continua costruzione delle gerarchie sociali. E senza equità non esistono diritti umani, ricordiamolo, e quindi non esiste libertà.

Valore delle merci e meriti sono misurabili distintamente tanto secondo i parametri dello scambio tipico dei mercati, quanto secondo i trasparenti parametri di valutazione delle istituzioni economiche e sociali. Essi sono in primis lo status che fonda il prestigio sociale e la legittimazione delle azioni e dei ruoli che da quella allocazione parametrica deriva.

Questa equa valutazione fonda i diritti di cittadinanza. La liberalizzazione deve essere intesa nell’orizzonte teorico di tali diritti e quindi anche in quello dei doveri sociali che scaturiscono dalla nascita delle responsabilità personali nell’acquisizione e non solo nell’erogazione dei diritti medesimi.

Essa si fonda sulla costruzione di tutti quegli strumenti frutto dell’azione sociale, di singole persone o di gruppi di persone, per allocare merci e meriti secondo i criteri che derivano dalle sfere di giustizia della legge, dell’etica e della morale.

L’insieme dei mondi vitali è fatto di scambi e di relazioni sociali. Ciò che accomuna lo scambio di mercato e le relazioni personali non di mercato è la loro inserzione in un insieme di relazioni culturali, configurate dalle diverse sfere di giustizia prima evocate.

In questo senso le liberalizzazioni sono sia una lotta per ridurre le imperfezioni dei mercati, sia per allocare le posizioni sociali secondo i meriti. E questo perché tali imperfezioni fondano le penalizzazioni dei diritti della persona. Essi debbono, invece, essere definiti dall’allocazione secondo giustizia dei meriti personali, allocazione che è uno dei contenuti moderni essenziali della libertà.

Ecco il nesso fondamentale tra liberalizzazioni e libertà.



Il fallimento delle liberalizzazioni nella sfera delle libertà

Ma questo nesso può essere spezzato. Per esempio, nel caso del monopolio o del monopsonio, invece di acquistare o vendere tramite procedure che premino i prezzi o la qualità dei prodotti e allocare i meriti secondo giustizia, si possono introdurre criteri diversi, fondati, per esempio, su incentivi agli agenti che controllano le procedure di allocazione, sulla base della corresponsione di valori monetari o di vantaggi di status. Si deve, però, tenere in conto che tali violazioni si possono realizzare anche nel caso di mercati perfetti o quasi perfetti, a causa di comportamenti opportunistici degli attori rivolti, grazie alla violazione dei contratti, a ottenere vantaggi monetari o di status. In questo senso, corruzione di mercato e corruzione fondata sulla relazione sociale si intersecano. Io posso violare una gara di appalto o un contratto tra privati perché sono attratto da un premio monetario, oppure perché credo alla promessa di ricevere, grazie a quella violazione, una promozione nella gerarchia sociale per me o per dei miei parenti, per dei miei clientes, secondo le pratiche del patronage, del nepotismo, del clientelismo.

Di qui il fallimento delle liberalizzazioni nella sfera delle libertà. E questo va tenuto ben presente.

Per questo la liberalizzazione virtuosa – ossia apportatrice di libertà – si diffonde più facilmente là dove clientelismo, nepotismo, patronage, circolano difficilmente nella società, perché ricevono dalle persone forti sanzioni morali. Il circolo vizioso è più diffuso là dove gli incentivi monetari non sono regolati da valori morali e costituiscono di per se stessi un criterio di prestigio, dove la sanzione morale non agisce e la credenza nella legalità è assente o molto scarsa.

Si noti che la liberalizzazione virtuosa non si afferma dove mancano tutti i prerequisiti per la crescita di una cultura e di un assetto istituzionale idonei all’affermazione e allo sviluppo dei diritti umani.

In questo senso, l’assenza del circolo virtuoso tra liberalizzazione e libertà è il vulnus che può colpire i diritti di cittadinanza e di mobilità sociale fondati sul merito. L’assenza di liberalizzazione condanna il mercato a degenerare in strumento allocativo distorto, tanto dei prezzi quanto della qualità delle merci prodotte, creando barriere all’entrata che impediscono la crescita fondata su una forte società civile, ossia su una rete di relazioni proprietarie basate sulle sfere di giustizia prima richiamate. Per questo l’assenza di liberalizzazione può coincidere con la crescita economica fino a quando quest’ultima non ha bisogno, per progredire, di sviluppo sociale, ossia di fairness e di relazioni intersoggettive eque, fondate sull’ integrità.

Conclusioni
Il rapporto tra liberalizzazione e libertà è quindi strettissimo e costituisce il cuore dell’utopica speranza che i meriti personali siano attribuiti in base ai valori di trasparenza che civilizzano la competizione.

La lotta per la liberalizzazione, questo è l’essenziale del pensiero qui espresso, è la lotta per un’allocazione non distorta dei meriti e delle merci. Ciò che conta, lo si deduce da quanto ho detto, è la competizione, non la privatizzazione proprietaria. La privatizzazione può non coniugarsi con la liberalizzazione quando non sono garantite condizioni di libero accesso alla proprietà tramite mercati perfetti o quasi perfetti, come nel caso dei monopoli naturali, tecnologici o fondati su barriere all’entrata così alte da impedire un’equa apertura degli stessi. In questi casi la liberalizzazione può essere fondata sulla convivenza di forme di proprietà polifoniche, diverse, che competono tra di loro, grazie alla regolazione della legge. La proprietà pubblica di tali monopoli non è, allora, un vulnus alla liberalizzazione. Anzi, in alcuni casi, può esserne elemento costitutivo, come si evidenzia nell’esperienza delle nazioni anglosassoni regolate dalla common law, l’antistatolatrismo per eccellenza a cui sempre dovremmo ispirarci. A questi modelli pluriformi possiamo e dobbiamo giungere.

Qui si è presentato un percorso teorico che quel sentiero vuol aiutare a tracciare, nella dura selva pietrificata in cui siamo prigionieri. E qui iniziamo a tacere.