Stiamo vivendo a ritmo accelerato un passaggio culturale di grande rilievo dall’epoca dello scontro delle grandi ideologie politiche totalizzanti a un’epoca in cui, come diceva Giovanni Paolo II, al centro è «la disputa sull’humanum» in quanto tale, come frontiera sulla quale sono in gioco l’esistenza e l’identità del soggetto umano stesso. Ma il proporsi della questione dell’umano non avviene nel contesto di una cultura umanistica, bensì in quello di un prevalente orientamento nichilista, che non è una qualche forma di ateismo, ma una nuova sensibilità esistenziale e una nuova visione del mondo in cui si mescolano, in un equilibrio instabile ed equivoco, un certo senso della gratuità dell’accadere del mondo e una sua sfrenata manipolazione tecnoscientifica. In comune, la crisi profonda dell’idea di fondamenti intangibili dell’umano e il venir meno di riferimenti universalistici, anche quelli moderni come natura e scienza, famiglia e diritto, politica e storia, ecc.
In questa temperie diventa difficile all’uomo contemporaneo fare davvero esperienza della sua vita, vivere l’esistenza alla luce di un criterio di senso che la renda una totalità unificata.
Un ambito di particolare significato antropologico, in cui questa difficoltà a comporre l’esperienza è visibilmente operante è la scomposizione di ragione e affetti. Il prevalere sociale della razionalità tecnologica, che è ormai pervasiva di ogni ambito dell’esistenza e si impone di fatto al di là di ogni resistenza o dissenso, tende ad assimilare a sé ogni forma di razionalità; ma la razionalità analitica e calcolatoria tecno-scientifica di per sé estranea l’affettivo dalla sfera del razionale. Mentre l’affettività, a sua volta, essendo sempre meno in comunicazione con criteri razionali, si sviluppa in termini sempre più soggettivistici e anomici.
In definitiva, la scissione tra razionalità calcolante (tecnologico-scientifica) e vissuto affettivo ed emotivo sta diventando la condizione “normale” dell’uomo contemporaneo. La tecnologia diviene la dea realizzatrice di tutti i desideri (come appaiono – ad esempio – le biotecnologie nell’immaginario collettivo); l’esistenza lavorativa è vissuta come cosa opaca, oppressiva e senza gusto, mentre la vita affettiva è vissuta come sua immagine speculare, mondo raffinato senza regola, nomade e gratificante oppure erotismo volgare nella forma dello sfogo compensatorio e del commercio di massa, ecc. A riprova che, se razionalità vuol dire tecnicità, calcolo e potere analitico, tutto ciò che non vi appartiene diventa trasgressivo, irrazionale e nomade.
In tal modo si stabilisce complessivamente una sindrome culturale radicata e coerente, costituita da due momenti simmetrici e complementari: quello della razionalità come potere e quella dell’affettività come emotività. Le due dimensioni si completano e si sostengono fra loro; scisse e complementari nella loro opposizione. La sfera emozionale esclude la razionalità, la regola, la progettualità; la sfera razionale esclude invece l’esistenziale, il relazionale, l’affettivo.
Si dà in tal modo una «fatale separazione di emozione e razionalità – afferma a mio avviso con acume Kamper – che nessuna precedente epoca dell’umanità ha conosciuto in forma così acuta, [che] conduce a una dolorosa e sorda anti-logica, da un lato, e dall’altro lato a una vuota logica formale che si ripercuote sulle emozioni secondo lo schema del dominio e dello sfruttamento». In questo senso è in atto «una catastrofe emotiva», per la quale da un lato «la socialità degli uomini si è perduta in un potere di costrizione delle cose e, dall’altro, gli stessi essere umani sono rinchiusi nella loro dimensione privata come in una prigione senza sbarre»[1].
Uno spesso velo ideologico cerca di normalizzare tutto ciò, rappresentando questi processi come forme di una raggiunta libertà. Ma è difficile negare l’evidenza di una sofferenza diffusa e di una frustrazione ripetuta da parte di vite senza fisionomia affettiva definita, senza progettualità in crescita, senza fecondità generazionale. In breve, senza storia. Nell’effettività biografica dei singoli e nell’immaginario collettivo sembra prevalere come regola l’episodicità affettiva e l’assenza della “storia d’amore”.
Il fatto che oggi si faccia spettacolo di questa condizione, recuperando in questo modo una certa socialità dell’asociale, non toglie in nulla, anzi aggrava la patologia delle relazioni, e quindi il vulnus collettivo. Le varie agenzie della cultura e della comunicazione sociale sembrano interessate a gestire il problema attraverso una sorta di scansione ritmica continuamente ripetuta: massima liberalizzazione dei comportamenti e dei costumi; drastica privatizzazione delle esperienze e delle forme affettive, che implica isolamento, marginalizzazione, abbandono a se stesso del singolo (del giovane, in specie); spudorata spettacolarizzazione dei casi, che significa realizzazione di quella “società trasparente”, in cui l’importante è esibire, non capire, né aiutare, perché il centro dell’interesse non è affatto la cosa in se stessa (cioè la vicenda dei soggetti reali), bensì la gestione del consenso e del conformismo sociali. La spettacolarizzazione poi, a sua volta, legittimando la liberalizzazione e sancendo la privatizzazione, riavvia il gioco ripetitivo e sterile, cioè senza alcun accrescimento delle relazioni.
L’esperienza e la concezione affettive contemporanee si concentrano così sempre più nell’emozionale. Ma l’emozione è autoreferenziale, in essa l’alterità è presente solo come occasione esterna, ed è istantanea, ripetitiva, intensiva. La situazione diviene preoccupante, quando tutta l’affettività tende a risolversi in emozione e l’emozionalismo diviene una forma culturale predominante. Come la razionalità tecnologica è pervasiva dal punto di vista razionale, così l’emozionalismo è pervasivo sul piano degli affetti: diventa la forma paradigmatica del sentire nella pubblicità, nella moda, nei mass media, nella pubblicistica, negli sport estremi, nel divertimento, nella politica urlata.
Si comprende dunque che ciò che è in gioco non sono comportamenti discutibili o aberranti, ma qualcosa di più strutturale, cioè il modo dello stesso “far esperienza”. Non è un problema di serietà etica degli individui, ma di una forma mentis generalizzata, che è più forte delle (buone) intenzioni soggettive, donde, per esempio, quella ormai tipica fragilità, instabilità, volubilità dei rapporti, di cui tutti facciamo esperienza e che sorprendiamo in particolare a livello giovanile. Una mentalità emozionalista, infatti, abitua a far attenzione a sé, ad ascoltarsi e a sentirsi sovra ogni cosa, rendendo esponenzialmente fragili nei confronti della fatica delle relazioni.
«Certo, Eros – osserva Bauman – non è morto. Ma è stato esiliato dal suo regno ereditario e condannato – come un tempo lo fu Ahaspher, l’ebreo errante – a vagare senza meta, a trascinarsi senza posa nell’interminabile – perché eternamente vana – ricerca di un riparo. Oggi Eros lo si trova dappertutto, ma in nessun luogo resterà a lungo. Non ha indirizzo fisso»[2].
Ciò conduce anche alla scomposizione dell’esperienza affettiva stessa, alla frammentazione dell’amore; nella proporzione in cui prevale la chiave di lettura emotiva, diventa difficile vedere con chiarezza i nessi profondi di senso e di valore tra sessualità e affettività, tra concezione e generazione, essendo il proprio sentire la misura che pone o scompone, depone o ricompone l’esperienza affettiva. Ma soprattutto diventa più facile assimilare la relazione affettiva a bene di consumo, a «relazione tascabile» – come la chiama Bauman -, considerata soddisfacente e liberante nella misura in cui non crea legami e vincoli.
Libertà e potere
In questo quadro che cosa significa “libertà”? La libertà si identifica con l’energia di autoaffermazione, con la rivendicazione della propria differenza, con il potere delle proprie scelte.
Ora, questo è conforme al sentire comune molto diffuso e fortemente sostenuto dall’opinione e dalla comunicazione pubblica. Tanto che si potrebbe dire che nell’Occidente attuale, caratterizzato appunto dalla crisi di un’universalità culturale riconosciuta, questa idea della libertà costituisca l’(unica) idea dominante dell’ethos condiviso.
In concreto ciò significa che tutti gli ambiti dell’esperienza umana sono anzitutto ed essenzialmente esercizi di libera scelta e perciò siano interamente “a disposizione”. Il comune denominatore è insomma la persuasione che tutti gli ambiti in cui il soggetto appare immediatamente protagonista – come sessualità, affetti, paternità/maternità, vita, morte – sono campi di esercizio della libertà, in cui il soggetto (o quel che resta di esso) gioca tutta la sua consistenza e dignità. La difesa della libertà è, infatti, l’argomento pubblico per eccellenza a sostegno della temporaneità dei legami affettivi, dell’equivalenza antropologica e morale delle identità sessuali (etero/omo/bi/trans), della fecondazione tecnologica, dell’aborto procurato, della liceità dell’eutanasia. E dunque sono scelte da difendere ad oltranza, perché ne va della libertà degli individui e delle conquiste della modernità. Argomento che si impone anche a chi non condivide tali scelte e stili di vita, ma, in quanto scelte possibili, è pronto a riconoscerne il valore equivalente: io non sono e non faccio così, ma ogni scelta in quanto libera vale a pari titolo di ogni altra (e quindi non può essere esternamente regolata).
Ciò significa che il contenuto della scelta viene riassorbito dalla forma della libertà: non conta se ciò che è scelto è bene o male, ma solo se è stato scelto, è la forma dell’essere scelto che attribuisce valore al contenuto. Indifferenza del contenuto dunque e trionfo della forma: il formalismo della libertà come unica origine del valore. Alle spalle sta la cancellazione dell’idea della libertà come adesione al bene, essendo lo stesso scegliere l’unico bene.
Per questo i dibattiti sui temi etici del nostro tempo sono spesso dialoghi tra sordi: per quanto sforzo ci si metta a richiamare alla realtà dei fatti, alle ragioni delle cose, al fine della persona, al bene comune, se il valore è la libertà di scelta, non ci sarà argomento in grado di persuadere di alcunché, perché esiste un argomento unico e monotono, vincente e sempre pronto: il primato della libera scelta.
Questo, a ben vedere, è anche l’unico criterio che sta a capo del rispetto, del dialogo, della tolleranza, insomma dei maggiori valori pubblici dell’Occidente, il cui contenuto in molti dibattiti non è che lo spazio neutro delle opzioni; si dialoga per dialogare: la questione della verità del bene e della libertà stessa non è mai in gioco (appunto perché si ritiene che non vi sia verità e bene come misure della libertà stessa). Dove incontrare ormai un dibattito che discuta del bene/male di un certa scelta e dunque dove trovare una qualche preoccupazione per la buona o la cattiva sorte di chi la compie o anche solo per gli effetti che essa produce? Si fa irreperibile l’interesse per la giustezza delle cose e per il destino delle persone; basta che siano libere: l’indifferenza ostentata per il contenuto diventa indifferenza sostanziosa per le persone. Anzi, ogni apprezzamento di valore dei contenuti può essere considerata già una mancanza di rispetto, un’ingerenza nello spazio neutro della condivisione.
Ovviamente non è in questione il valore della libera scelta, del rispetto, del dialogo, della tolleranza, ma che l’idea della libertà si sta sempre più riducendo a un significato unico e isolato, astratto e vuoto; che questo sembra essere l’ultimo fondamento di valore dell’ethos occidentale; di cui esso peraltro va orgoglioso e a cui è attaccato come ostrica allo scoglio, quasi per trattenersi dallo sprofondare nell’abisso del nulla.
Libertà generativa
Non c’è da meravigliarsi che in questo contesto si formuli una sindrome che unisce l’esperienza libertaria della libertà, il desiderio ridotto ad emozione narcisistica, il potere tecnologico disponente, e che l’esistenza si progetti come potere della libertà, che usa una tecnica (ritenuta) capace di trasformare integralmente ogni natura, per realizzare qualunque desiderio della libertà; cerchio perfetto, in cui l’uomo fa della sua vita l’oggetto del suo proprio esperimento (mentale, affettivo, empirico).
La realtà maggiormente messa a prova da questo vortice sono le relazioni tra gli uomini, e in specie quelle che più intimamente coinvolgono i soggetti come quelle affettive e sessuali, perché anche le relazioni saranno inevitabilmente interpretate come paradiso dei desideri, resi oggetto di manipolazione illimitata ed esperimenti della libertà. E correlativamente l’identità dei soggetti, per loro natura sempre in definizione entro le loro relazioni, sarà vissuta come una costruzione totalmente affidata alla libertà. Inevitabilmente la famiglia non potrà essere concepita come un progetto orientato a beni propri e vincolanti: una differenza sessuale irriducibile, una stabilità esigibile, una fecondità predisposta; ma sarà anch’essa una forma disponibile a molti modi e contenuti. Più una recita a soggetto, insomma, che un progetto.
Tutto ciò ha degli evidenti costi umani, ma è anche terribilmente coerente, se libertà, tecnica e desiderio sono interpretati in quel modo. Non è facile perciò un cambiamento di prospettiva, come l’esperienza dimostra. Solo un dubbio sulla reale soddisfazione delle aspettative della propria libertà e del suo desiderio può riaprire il gioco dell’attesa verso beni più belli e più grandi.
Ciò passa anzitutto attraverso un diverso senso della libertà. Certamente la libertà è potere di scelta, ma ha anche bisogno di essere attivata, sollecitata e orientata per essere pienamente se stessa. Come la bella addormentata – pur essendo già perfetta nella sua bellezza – ha bisogno di essere risvegliata dal bacio del principe, così la libertà umana ha bisogno della graziosa e gratuita relazione ad altra libertà per entrare in possesso pieno di se stessa, per dar forma compiuta all’identità umana di cui essa è portatrice. Questa del resto è l’esperienza universale del bisogno che il piccolo d’uomo ha dell’adulto per crescere e diventar se stesso; fenomeno che accompagna la sua vita lungo tutto il suo corso, perché l’amore, l’amicizia, il riconoscimento sociale sono su piani e in gradi diversi tutte forme della relazione interumana necessaria alla stabilità e alla crescita dei soggetti, cioè alla definizione storica della loro identità.
La dinamicità di questo essere in relazione è affidato, dunque, al bisogno dell’altro che il soggetto ha per entrare e rientrare continuamente in possesso delle sue stesse capacità. La libertà ha bisogno che un’altra libertà si rivolga a lei per giungere a se stessa, per acquisire il suo potere di decisione e la sua forza di identificazione. Il soggetto ha bisogno di riconoscimento, ma essere riconosciuto significa essere ospitato e venir ad abitare in altri, nella sua conoscenza e nel suo affetto. In qualche modo l’accoglienza positiva da parte di altri offre al soggetto un accertamento e una prospettiva che il soggetto non potrebbe darsi. La libertà ha bisogno di un’altra libertà per giungere a se stessa e per esercitarsi nella pienezza della sua capacità.
Anche l’esperienza del bene prende forma e rilievo nella relazione. Il senso del bene non lo si ha attraverso un’astratta idea, ma nell’esperienza di una relazione buona e indispensabile, di cui cioè sperimentiamo il bisogno inderogabile. Ciò è così fondamentale che la maturazione umana di questa struttura dell’esperienza coincide con la formazione stessa della coscienza morale, che di tale struttura evidenzia che la libertà non è fine a se stessa, ma ha un senso, una direzione che va dall’essere suscitata e costantemente nutrita dalla relazione da/con altra libertà all’essere orientata al bene proprio e dell’altro.
In questo triangolo della relazione, della scelta e del bene prende consistenza l’esperienza morale, in cui la libertà prende coscienza di essere vincolata a questa struttura, di doverle rispondere, non come a qualcosa che le si impone dall’esterno, ma come ciò che le permette di vivere. Rispettare l’obbligo (legame) morale dell’altrui libertà e del bene è il modo con cui la libertà conserva e realizza se stessa.
Infine, il nesso tra le forme della libertà (di scelta, di bene, di relazione) suggerisce che il soggetto umano ha la sua identità non in un’astratta differenza, e neppure in una unità comunitaria, ma in un legame generativo. La relazione di riconoscimento, infatti, è una forma – forse la fondamentale – di generazione, dal momento che essa ha il potere di portare alla luce l’altro uomo. Non solo per chi riceve il riconoscimento esso è generativo, ma anche per chi lo concede l’offerta di ospitalità fatta all’altro è già esercizio di libertà e quindi assicurazione e incremento di un legame generativo. In tal modo l’identità umana ottiene la sua fisionomia all’interno del gioco delle relazioni, nella misura in cui queste si realizzano come scambio generativo: l’essere umano esiste in proporzione del suo essere generato e quindi dell’essere in relazione d’appartenenza con un luogo d’origine; e questo sta a fondamento di una concezione umanistica dell’uomo e della sua società.
La modernità ha identificato spesso la dignità dell’uomo con una astratta autonomia, che lo ha sottratto all’esperienza elementare, realistica e benefica della dipendenza antropologicamente originaria e originante dall’Altro, che unica mette in grado di essere a propria volta generatore e quindi protagonista. E la postmodernità, a sua volta, ha proseguito nella linea della demolizione dell’individualismo, ma senza rimetterne in discussione il paradigma fondamentale.
È fortemente simbolico il fatto che l’ideologia tecnocratica diffusa nell’attuale esercizio delle biotecnologie lavori alla rinominazione della generazione come riproduzione (eventualmente assistita). È ovvio infatti che là dove il vincolo generativo non è avvertito come cifra dell’umano come tale, si finisca per puntare alla disposizione illimitata della vita umana.
Al contrario, la cifra della generazione riarticola l’esperienza in modo unitario e plurimo insieme, perché implica un complesso antropologico ricco di contenuto, dinamico nella realizzazione, affidato ad eventi di libertà. La generatività umana, infatti, significa genesi e legame, trasmissione e tradizione, cura ed educazione, responsabilità e fedeltà.
Allora l’avventura famigliare ritrova senso e attrattiva, non come impegno specializzato, ma come paradigma di identità, libertà e relazione in cui l’umano trova più degna soddisfazione. L’idea occidentale di famiglia, infatti, incorpora un’idea di uomo che costituisce un vertice di ogni possibile umanesimo. È appunto l’idea che l’uomo ha un’identità relazionale generativa, un’identità che si esercita e si costruisce come relazione generatrice d’altra identità, che consiste in un essere in relazione che accoglie l’altro nella sua reale e piena differenza e in questo senso lo genera e consegna a se stesso: il rilievo della differenza sessuale, il valore della durata del legame in cui l’altro permane significativo nel tempo, l’apertura alla corposa alterità del figlio sono caratteri tipici di questa concezione dell’identità umana che si costruisce facendo esistere in molti modi l’altro accolto nelle sue irriducibili differenze. Una fisionomia umana e di una dinamica d’esistenza, la cui perdita non significa una sconfitta della tradizione religiosa cristiana, ma la perdita di un patrimonio e la dissipazione di una risorsa essenziali per la conservazione e la fruttificazione di tutto ciò che vi è di più prezioso della civiltà occidentale.
[1] D. Kamper, Desiderio, in A. Corsari (a cura di), Cosmo, corpo, cultura. Enciclopedia
antropologica, Mondadori, Milano 2002, p. 1021 e ss.
[2] Z. Bauman, Amore liquido. Sulla fragilità dei legami
affettivi, Laterza, Roma-Bari 2004, p. 55.