Chi osserva i lavori della Costituente, iniziati nel luglio 1946 e terminati nel dicembre 1947 con il varo della Carta costituzionale, e paragona il loro andamento con quello del quadro politico italiano dello stesso periodo, può avere l’impressione di una netta divaricazione tra i due ambiti: tanto il primo appare ispirato ad una sostanziale concordia, infatti, quanto il secondo, invece, è caratterizzato da tensioni di ogni genere, da uno scontro politico destinato a sfociare alla fine nella rottura dell’alleanza tripartita (Dc, Pci, Psi), nel maggio 1947, e nella conseguente formazione del terzo governo De Gasperi senza la presenza delle sinistre.

Ma si tratta per l’appunto solo di un’impressione. In realtà tra i lavori della Costituente e la vicenda politica nazionale intercorrono molti legami. E sono precisamente i contenuti di quest’ultima che spiegano la relativa facilità e il buon esito dei primi. Legami virtuosi peraltro facilitati, nel loro operare, dalla richiesta avanzata da De Gasperi prima del referendum del 2 giugno, e sostanzialmente accettata dagli altri partiti, che alla Costituente fosse affidato pressoché solo il compito di redigere la Costituzione, mentre l’attività legislativa sarebbe stata riservata esclusivamente al governo. Si ebbe in tal modo una sorta, per così dire, di sterilizzazione politica della nuova – e fino alle elezioni del ’48 unica – assemblea elettiva che avesse il paese. La quale ebbe quindi modo di operare in una relativa tranquillità, cosicché poterono in essa manifestarsi alquanto liberamente, e all’occasione incontrarsi e combinarsi tra loro, quegli orientamenti ideologici, quei valori di fondo, propri delle singole forze e culture politiche, che viceversa, in una temperie di aperta e piena politicizzazione, avrebbero dovuto sottostare agli inevitabili imperativi della competizione e della lotta politica.

Ma la politica non fu certo assente dai lavori della Costituente. Oltre a quello ora detto furono proprio alcuni elementi di natura prettamente politica, infatti, che valsero a creare il clima di collaborazione che caratterizzò la scrittura della nostra Carta costituzionale, a cominciare dal risultato delle elezioni del 2 giugno per la stessa Costituente, abbinate come si sa al referendum istituzionale. Fu un risultato che, dando alla Democrazia cristiana da sola poco meno dell’identico numero di voti di Pci e Psi sommati insieme (con il Partito d’Azione in pratica cancellato), e soprattutto, assegnando ai comunisti meno suffragi che ai socialisti (18,9% contro 20,7%), sconvolse l’immagine che fino ad allora un po’ tutti gli attori si erano fatti della realtà del paese. Alla prova del responso popolare, insomma, le sinistre non si erano rivelate affatto in una posizione di forza: nell’aula della Costituente la Dc insieme alle destre (liberali, qualunquisti e monarchici) disponeva di una larga maggioranza.

Fu soprattutto questa situazione, in larga misura imprevista, che spiega quello che non da oggi appare come il dato centrale della Costituzione italiana, e cioè il contributo comune alla sua scrittura che apportarono, con un accordo che si ripeté più e più volte, comunisti e cattolici. Sotto l’intelligente guida di Togliatti, e tanto più in quanto in ambito internazionale si andava delineando un sempre più grave scontro Usa-Urss, l’obiettivo principale dei primi, scopertisi assoluta minoranza, divenne quello d’impedire che si saldasse il fronte di centro-destra di cui sopra, di cercare il più possibile di tenere agganciati i cattolici in un rapporto di collaborazione che fosse il prosieguo della vecchia alleanza antifascista, avvalendosi, naturalmente, della comune avversione per l’individualismo di marca liberale e per i meccanismi della competizione sociale e del mercato.

Più complessa la questione in campo cattolico. Qui, la sinistra dossettiana, largamente esclusa dal governo e in buona parte dai vertici del partito, ma presente invece con i suoi uomini più agguerriti nella rappresentanza democristiana alla Costituente, si servì di questo elemento da un lato per affermare una sorta di propria egemonia intellettuale sul cattolicesimo politico nel suo complesso, e dall’altro per dare una qualche attuazione a quelle istanze di solidarismo sociale e di personalismo duramente antiliberale, proprie del suo bagaglio politico-culturale, ma che non potevano certo trovare molto spazio né nelle politiche del governo De Gasperi né nei programmi ufficiali della Dc.

In un modo alquanto paradossale, dunque, furono proprio ragioni schiettamente politiche quelle che contribuirono a dare alla Repubblica una Costituzione del tutto apolitica (basti pensare all’organizzazione assolutamente inefficace del potere di governo), ma potentemente orientata in senso ideologico-precettistico.


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