La sterilità del riformismo costituzionale italiano ha qualcosa di sconcertante. Da venticinque anni, e più, dal tempo della famosa Commissione Bozzi, commissioni e comitati, d’origine parlamentare o governativa, si sono succeduti, lavorando sempre con entusiasmo e alacremente, ogni volta sostenuti e talvolta enfatizzati dai mezzi di comunicazione di massa, senza tuttavia che venissero raggiunti dei risultati autentici. Paradossalmente, l’impressione frustrante del “pugno di mosche” ha raggiunto il suo acme in occasione di riforme formalmente attuate, come quella della XIV Legislatura, bocciata dal successivo referendum popolare, ma anche di quella della XIII Legislatura relativa al Titolo V, attualmente vigente e tuttavia difficoltosamente operante per la mancata previsione del “federalismo fiscale”.

Con più di un pizzico di civetteria, oggi, il Presidente della Repubblica, parla della Costituzione come di “Una bella sessantenne che ha bisogno di qualche lifting”. Ma le critiche alla Carta costituzionale non si contano; qualche anno fa è uscito un libretto, “La costituzione criticata”, con un florilegio delle critiche che sono piovute già all’indomani della sua entrata in vigore, da destra e da sinistra, da reazionari e da rivoluzionari, da credenti e da atei, ma quel che più colpisce da parte di illustri e autorevolissimi costituenti, come Lelio Basso e Piero Calamandrei, come Benedetto Croce e Emilio Lussu, come Francesco Saverio Nitti e Vittorio Emanuele Orlando. D’altra parte all’indomani del referendum del giugno 2006, che bocciava la riforma costituzionale del Governo di Centrodestra, l’Istituto Cattaneo, dopo una minuziosa e acuta analisi dei dati referendari, concludeva affermando che “il prevalere del ‘no’ non poteva essere interpretato come il prevalere dell’opinione secondo cui la Costituzione non si può toccare”! Ma allora perché ogni tentativo di “toccarla” finisce col bruciare le mani del “riformista”?

Gianfranco Miglio ha sostenuto che all’origine di questa sconcertante impotenza stava l’attribuzione della potestà esclusiva di revisione dei testi costituzionali alle Camere del Parlamento. “Di diritto – così ha scritto in un saggio del 1986 – le possibilità di cambiare sono in tal modo rimesse alla categoria dei politici di mestiere, ossia ai beneficiari dello statu quo. Una categoria che si è sempre dimostrata attenta a difendere le proprie rendite politiche, nei casi migliori, gli interessi della propria parte, non le necessità generali”. L’errore sarebbe stato quello di non aver sottoposto la Carta elaborata dall’Assemblea Costituente a referendum per il timore che la consultazione popolare si tramutasse in un ritorno sulla scelta del regime, timore che, stando alle confidenze di Calamandrei, accomunava democristiani e comunisti.

È indubitabile che vi sia qualcosa di vero in questa tesi, anche se lo sviluppo che la vicenda ha poi avuto mette in luce un’involuzione ulteriore della patologia, evidenziatasi nell’utilizzo della riforma costituzionale da parte dei partiti di maggioranza allo scadere della legislatura per la propaganda in vista delle future elezioni. Il farlo non ha portato fortuna né al centrosinistra nel 2001 né al centrodestra nel 2006. Che la lezione sia servita?

L’esperienza personalmente fatta nel Comitato di studio sulle riforme istituzionali, elettorali e costituzionali nel corso della XII Legislatura mi induce tuttavia a ritenere che la ragione profonda della sterilità riformista sia un’altra e non avrei dubbi ad individuarla nel “moralismo”. Moralismo per cui uno si infatua della propria idea e si chiude alla convivenza con le idee altrui, che ha come rovescio della medaglia la tentazione dell’utilizzo del potere senza riserve e senza misura, quando si sia riusciti a conquistarlo, e della critica del potere senza misura e senza quartiere, quando se ne sia stati esclusi.

Per spiegarmi mi affiderei ad un testo teologico, particolarmente suggestivo. “Il primo servizio che la fede fa alla politica è la liberazione dell’uomo dall’irrazionalità dei miti politici, che sono il vero rischio del nostro tempo. (…) La verità è che la morale politica consiste precisamente nella resistenza alla seduzione delle grandi parole con cui ci si fa gioco dell’umanità dell’uomo e delle sue possibilità. Non è morale il moralismo dell’avventura, che intende realizzare da sé le cose di Dio. Lo è invece la lealtà che accetta le misure dell’uomo e compie, entro queste misure, l’opera dell’uomo. Non l’assenza di ogni compromesso, ma il compromesso stesso è la vera morale dell’attività politica”. Ne è autore un giovane professore di teologia all’Università di Bonn, Joseph Ratzinger, che così si pronunziò nel 1981 parlando ai deputati cattolici del parlamento tedesco. Il termine compromesso, nell’uso comune, è andato assumendo un significato peggiorativo, quasi stesse per rinuncia ai principi e mercanteggiamento, ma non è questo il suo significato autentico perché, associando la preposizione “con” al verbo “promettere”, si indica invece l’attitudine al reciproco riconoscimento tra posizioni diverse e alternative nonché la capacità di mantenere responsabilmente fermo l’impegno reciprocamente assunto.

A intendere il significato autentico di compromesso credo che potrebbe riuscire utile ricordare un passo del Sofista. Platone vi traccia un geniale quadro teoretico e storico delle diverse concezioni dell’Essere, raggruppandole in quattro grandi famiglie, due a due contrapposte, dei pluralisti e dei monisti, dei materialisti e degli idealisti. E che cosa risulta? Nessuno degli opposti può escludere l’altro perché ne ha bisogno. Non i pluralisti, che per affermare la pluralità dei principi dell’essere devono tuttavia riconoscere l’unità dell’Essere principio. Non i monisti, che per affermare l’unità dell’Essere, rappresentata con l’immagine della sfera, debbono tuttavia concedere la sua articolazione in essere tutto ed essere parte, essere circonferenza, centro e raggi. Non i materialisti, che per sostenere che l’Essere è tutto movimento debbono concedere che solo in relazione a qualcosa di fermo si può riconoscere il moto. Non gli idealisti, che per pensare l’Essere come quiete debbono concedere che esso si muova e muti, dall’Essere in sè all’Essere pensato.

Ora se questo vale in prospettiva teoretica quanto più dobbiamo ritenere che valga in prospettiva politica, dove la convivenza di più soggetti implica di necessità la relazione tra soggetti reciprocamente aperti e disposti a riconoscere ciò che è comune nel rispetto di ciò che è diverso. In nessuna concezione, e tanto meno a proposito di stato e di governo, è dato di escludere la concezione opposta, di cui si ha necessariamente bisogno per evidenziare ed esaltare la propria specificità. È la conventio ad escludendum, di cui il reciproco è la conventio ad includendum, oggi, l’ostacolo più pericoloso e subdolo che intralcia l’opera dei riformisti. Nessuna riforma sarà possibile se non ci convinciamo che tutti abbiamo qualcosa da darci a vicenda.


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