Dottor Monda, in primo luogo ci spieghi la sua formazione, che cosa la avvicinata agli studi esegetici e religiosi?
Il mio è stato un percorso un po’ articolato. Dopo la maturità classica ho preso la laurea in giurisprudenza e ho lavorato per undici anni presso un istituto bancario un’esperienza molto formativa ma anche noiosissima (o forse formativa proprio perché noiosa).
Sta di fatto che durante quei lunghi anni, per ri-avvicinarmi ad argomenti che mi interessavano assai maggiormente, ho cominciato a studiare Scienze Religiose, e per me è stato un po’ come tornare a respirare. Al termine di questo secondo percorso universitario ho compreso che, tra l’altro, una laurea in Scienze Religiose mi permetteva di insegnare religione nelle scuole; superai il concorso e dal 2000 sono diventato professore di religione nei licei di Roma. Col passare del tempo mi affidarono due corsi, all’Università gregoriana e Lateranense, dove insegno il rapporto fra religione e letteratura.
Ho scritto anche su vari giornali, e attualmente su Avvenire, il Foglio e l’Osservatore Romano. A rivedere indietro mi viene in mente il titolo di un famoso saggio di Moeller: “Saggezza greca e paradosso cristiano”. E poi anche dei saggi su Tolkien come quest’ultimo.
A suo avviso, l’opera principale di questo autore si può definire più di genere epico o di letteratura fantasy?
In primo luogo occorre mettersi d’accordo sul significato delle parole. Io sarei più per definire Il Signore degli Anelli come appartenente all’epica. Però può essere condivisibile anche il considerarlo come capostipite dei fantasy, una volta chiarito che questo termine non è affatto dispregiativo.
Esiste infatti una letteratura fantasy di grande livello e di grande importanza. Come ho detto propendo più per la grande riscoperta dell’epica racchiusa in questo grande romanzo, un romanzo epico novecentesco, che però ha al centro la fantasia.
Ma anche qui occorre spiegarsi bene, intendo infatti la fantasia di cui parla Tolkien.
Ossia?
Una fantasia che non è fuga dalla realtà, che non è droga né evasione, ma visione. Un modo, per dirla con Pennac, di astrarci dal nostro mondo per dargli un senso.
Ma in questo caso è un’operazione ancora più profonda: si perfora la realtà e la si vede in maniera simbolica, come segno, come qualcosa che rinvia a un oltre. Perché fra realtà e verità c’è uno scarto. Bisogna stare attenti a non cadere nel dogma dei realisti, a meno che non si intenda il realismo cattolico che consiste nel vedere la realtà come segno.
Mi viene in mente l’affermazione di Wittgenstein: «l’universo non si spiega con l’universo». La realtà è più grande della fantasia, perché quest’ultima scaturisce da quella. Ma in quest’ultima risiede la nostra capacità di leggerne il significato.
Questo è l’aspetto splendido della letteratura che non è mai solo intellettuale, sentimentale o psicologica ma uno sforzo globale dell’uomo di dire e comprendere la sua posizione nel mondo.
E qui abbiamo approfondito l’aspetto fantastico. Mentre lei prima ha detto comunque di propendere per una visione più avvicinabile alla dimensione epica. Può spiegare meglio questa sua affermazione?
Certo. L’epica è la letteratura per eccellenza. Epos significa “parola”. Ed è una parola grande che non si accontenta delle cose piccole. Buona parte della storia della letteratura occidentale, ma anche mondiale, coincide con l’epica, da Ghilgamesh a Omero fino al ‘500 per poi sparire quasi del tutto.
A me piace dire che, con Tolkien, ciò che era scomparso come un fiume carsico intorno al periodo del Rinascimento, riemerge oggi in una lingua e con un approccio tutto novecentesco.
La parola “grande” dell’epica, che parlava del destino dell’uomo, era sparita dopo Cervantes, dopo Don Chisciotte che ne è una parodia per quanto sublime, meravigliosa.
Ma l’epos è un genere che non può morire perché è radicato nel cuore dell’uomo il quale per natura è un essere narrante. Ci sono state quindi, nei secoli successivi, altre forme, sebbene meno evidenti, di epica, basti pensare all’opera di Melville.
Però è Tolkien a godere del primato di questo recupero. E lo ha fatto alla maniera di un filologo.
A questo di aggiunge che c’è tutto il ‘900 nel Signore degli Anelli. Penso alla grande invenzione degli hobbit perfetta immagine dei protagonisti del secolo scorso. Un eroe fragile, un non eroe, un santo.
Come giudica la strumentalizzazione che è stata fatta di quest’opera da varie parti politiche?
Nel 2002 scrissi un altro saggio, con Saverio Simonelli, che aveva come titolo provvisorio “Tolkien, il Signore degli equivoci”. Con quel libro intendevo denunciare il riduzionismo di simili interpretazioni.
In Italia il volume arrivò alla fine degli anni ’70. La prima edizione del 1970 non ebbe successo, mentre la seconda, del ’77, ebbe un trionfo strepitoso. Era un anno terribile, e si può immaginare l’impatto ideologico che scatenò sulla cultura del tempo. Tolkien cadde in molte interpretazioni sbagliate. La cultura ufficiale di sinistra snobbò Il Signore degli Anelli o lo bollò, con miopia, come libro scritto da un conservatore stravagante.
La destra invece lo considerò cosa propria. Ne mutuarono il linguaggio senza capire molto, a mio avviso, il significato. Ancora oggi a Roma si vedono manifesti che raffigurano il “camerata Frodo”.
La cose ridicola è che 10 anni prima, negli anni ’60, in America vi fu un fenomeno uguale ma di segno opposto. Era visto come il libro dell’antisistema da ecologisti, anticapitalisti e rivoluzionari di sinistra.
Queste interpretazioni contriburono, nel tempo, ad aggravare la diffidenza con la quale il libro a lungo è stato considerato.
La recente trasposizione cinematografica è, secondo lei, soggetta allo stesso tipo di letture?
No. Direi piuttosto che il film ha aiutato a sdoganare il libro proprio da visioni ideologiche.
Ha avuto un successo enorme, è tutto sommato un buon film con mille tradimenti rispetto all’opera, non tanto nello stile, perché Jackson è un regista appassionato, quanto nella resa del linguaggio cinematografico.
Ma io sono ben contento perché la vera letteratura ha il destino di essere popolare e non elitaria. In questo il film ha reso un favore al libro.
Un’ultima domanda: in una sua precedente intervista lei accostava la figura di Gollum a quella di Giuda. Non le sembra un paragone azzardato?
Gollum è senza dubbio un Frodo in controluce. Nel mio libro mi prolungo molto su Gollum che definisco, più che simile a Giuda, un alter Frodo. E poiché sostengo anche che in un certo senso Frodo rappresenti un alter Christus anche Gollum, senza voler essere blasfemi, è una sorta di alter Christus. Ciò ricorda l’aneddoto di Leonardo da Vinci che riutilizzò inconsapevolmente il modello che interpretò Cristo per dipingere Giuda.
Questo aneddoto dice che Cristo attraversa tutte le dimensioni, anche le più infime, dell’uomo, e prende su di sé tutto il peccato.
Quando Gollum cade nel fiume di lava porta su di sé tutto il peso del peccato. Questo lo rende simile a Gesù che s’immerge nelle acque battesimali del Giordano.
È un’immersione, quella di Gollum come quella di Cristo, provvidenziale e salvifica perché, nel caso di Gollum, anche lo stesso Frodo non ce l’avrebbe fatta.
Al di là di azzardati confronti evangelici, nel saggio faccio presente che Frodo e Gollum sono speculari. Frodo vede in Gollum una sua proiezione futura di sé e per questo ne ha pietà, mentre Gollum vede in Frodo il proprio passato.
Se gli hobbit sono la più grande invenzione di Tolkien, Gollum è la più grande invenzione degli hobbit.