Di fronte al crollo del sistema mondiale della finanza, sono sempre più forti le lamentele sul fatto che l’economia virtuale ha perso ogni relazione con quella reale. Anche da parte di chi fino a ieri ci ha sguazzato e ne ha pure ampiamente beneficiato.
Ma la lezione che traspare da quanto sta accadendo è assai più amara di quanto si dice, perché non riguarda solo il settore dell’economia, ma i più importanti pilastri della convivenza sociale: l’educazione, lo studio, il lavoro – e – più in generale – la visione del mondo. Con la sua consueta e fulminante lucidità, il sociologo Zygmunt Bauman ha individuato una delle radici di questo disastro: la crescente abitudine del “vivere a credito”, che sta dilagando anche e soprattutto tra le classi più giovani. In sostanza, nota Baumann, quando un tempo si voleva appagare un qualsiasi desiderio, si stabiliva una scala di priorità, si mettevano da parte i soldi un poco alla volta, si rinunciava a qualcos’altro, si faticava un po’ di più, ci si ingegnava. Oggi non è più così: vuoi una cosa? Compri subito e paghi dopo. E se hai fatto troppi debiti, c’è sempre qualcuno pronto a prestarti altri soldi, mentre i tuoi precedenti “pagherò” verranno addirittura rivenduti, creando il meccanismo vizioso dei titoli “tossici”. Ma la tossicità di questo approccio è tanto più grave in quanto ha pesantemente contaminato la complessiva visione della vita: la facilità con cui è stato possibile appagare qualsiasi desiderio immediato, anche superfluo, sembra aver reso del tutto inutile il ricorso al labor, allo studio, alla fatica, al sacrificio.
In termini più sociologici, si può osservare che nel nostro paese, dietro l’esempio quotidiano di grandi “rentier”, di manager rampanti, di smargiassi rappresentanti del jet-set e delle terrazze romane quotidianamente celebrati da Dagospia, dalla tv e dai settimanali popolari, la maggioranza dei nostri ragazzi ha creduto che il successo fosse un traguardo raggiungibile grazie ad un po’ di fortuna, ad una buona dose di furbizia, alle amicizie giuste o magari ad una comparsata televisiva. Sempre con il viatico della necessaria raccomandazione alle spalle, senza la quale oggi sembra impossibile acchiappare un qualsiasi lavoro decente. Sicchè lo studio, la fatica, il sudore, sono apparsi del tutto inutili.
Oggi tutte le colpe vengono date alla finanza, ma il circo mediatico che ha sempre osannato i personaggi citati (e si è ben guardato dal denunciare l’incestuoso e malato rapporto tra economia, finanza e politica che ha favorito il prosperare del mostruoso meccanismo che sta portando il mondo sull’orlo del baratro), non si rende nemmeno conto delle proprie responsabilità. Anzi, ora si mette pure – e in coro – a cantare il ritornello della finanza che ha tradito l’economia. Andrea Romano, su Il Riformista, ha molto opportunamente osservato che oggi in Italia ci troviamo inoltre di fronte alla crisi senza una classe dirigente di rincalzo. Per la verità ci sarebbe, ed è quella che cresce nei movimenti organizzati e orientati soprattutto all’educazione: lì crescono giovani abituati a studiare, a faticare, a confrontarsi in tutti i suoi aspetti con la società reale. Il problema è uno solo: chi è oggi al potere li saprà valorizzare dando loro lo spazio che si meritano, o li userà per l’ennesima volta come portatori d’acqua e donatori di sangue per poter sopravvivere un altro po’, perdendo definitivamente l’unica chance rimasta al paese?



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