«… Dostoevskij ha scritto un racconto su ciò che è veramente importante. Ha scritto un racconto sull’identità, sui valori morali, sulla morte, sulla volontà, sull’amore carnale in confronto a quello spirituale, sull’avidità, sulla libertà, sull’ossessione, sulla ragione, sulla fede, sul suicidio. E lo ha fatto senza mai ridurre i suoi personaggi a portavoce o i suoi libri a pamphlet. La sua preoccupazione è sempre stata che cosa vuol dire essere un essere umano – cioè, come essere una persona reale, qualcuno la cui vita è conformata da valori e da principi, invece che solo una specie particolarmente furba di animale autoconservativo».
David Foster Wallace, Joseph Frank’s Dostoyevsky, 1996.



Dopotutto, forse non era quel postmoderno che si vorrebbe. Molti necrologi americani lo hanno definito tale, seguendo la classificazione letteraria di critici e recensori negli ultimi vent’anni. Ma in una nota alla parola “post-modernismo” nel suo saggio su Dostoevskij, per fare un esempio, David Foster Wallace scrisse: “qualunque cosa esso sia esattamente”.  In un’intervista alla famosa giornalista americana Charlie Rose, scelse di definire questa parola semplicemente come “dopo il modernismo”. Wallace ha studiato filosofia all’Amherst College in Massachusetts e ad Harvard come dottorando per un anno, ma il campo nel quale si era specializzato era la logica matematica, non il pensiero post-moderno continentale, diciamo di  Foucault e Derida. Nel 2006, alla prima edizione del festival letterario Antonio Monda a Capri, Le Conversazioni, Wallace affermò di essere interessato “alla spiritualità, all’emozione e alla comunità”, usando “tecniche formali postmoderne per fini molto tradizionali”. In una breve nota pubblicata dopo il suicidio di Wallace, James Wood, uno dei migliori critici del mondo anglofono, ha scritto che Wallace era “esteticamente radicale e metafisicamente conservatore”.



Tutto questo per dire qualcosa che è ovvio: qualunque posto David Foster Wallace abbia occupato nella storia dell’evoluzione estetica del racconto, egli ha comunque condiviso le stesse preoccupazioni che hanno sempre interessato ogni artista e ogni essere umano: “che cosa è veramente importante”, come egli ha detto all’inizio del saggio su Dostoevskij. Notare la dizione: “veramente” e “cosa”. Colloquiale, innocente, il modo che uno studente semiubriaco di un college utilizzerebbe in una “profonda conversazione” con un amico, all’una di notte dopo una festa divertente ma poco soddisfacente. Questa frase è tipica della prosa di Wallace dalla quale, accanto all’ironia e allo humour nero per cui  è famoso, emerge anche una giovanile ed eccitata meraviglia per il mondo, che è molto americana (lo stesso entusiasmo che si trova in Jack Kerouac di On the Road e nel vagabondo Christopher McCandless di Into the Wild).



Si interessava di tutto. I suoi lavori includono saggi sulla struttura della lingua inglese (“Authority and American Usage,”), l’industria della pornografia americana (“Big Red Son”), un festival dell’aragosta del New England, l’effetto della televisione sulla narrativa, il regista David Lynch, la campagna presidenziale di John McCain nel 2000, la star del tennis Roger Federer, ecc. assieme a saggi letterari su Kafka, Dostoevskij, Borges e John Updike, come ovvio aspettarsi da un famoso romanziere. L’infinito era sempre nei suoi pensieri. Il suo secondo romanzo, il più celebrato, è Infinite Jest (1996), mille pagine pubblicate in Italia nel 2000, e sull’infinito ha anche scritto un lungo saggio, Everything and More: A Short History of Infinity (2003), (Tutto, e di più. Storia compatta dell’infinito, 2005), nel quale ha distillato, per il lettore comune, difficili concetti matematici.

Le sue ambizioni iniziarono presto. Il suo primo romanzo, The Broom of the System, pubblicato nel 1987, (La scopa del sistema, 1999), era originariamente la sua tesi scritta all’Amherst College. Dopo un master di Belle Arti in Scrittura Creativa all’Università dell’Arizona nel 1987, ha proseguito gli studi universitari in filosofia ad Harvard, che ha poi abbandonato per scrivere e insegnare a scrivere. Al suo primo romanzo fece seguito una raccolta di racconti  Girl with Curious Hair (1989), (La ragazza dai capelli strani,2003)  e poi Infinite Jest. Dopo, pubblicò altre due raccolte di brevi racconti: Brief Interviews with Hideous Men (1999), (Brevi interviste con uomini schifosi, 2000) e Oblivion (2004), pubblicato in Italia nello stesso anno con il titolo Oblio. Dal 2002, ha anche insegnato scrittura creativa al Pomona College a Claremont, in California.

Era un esploratore, lavorava molto e gli piaceva il successo. Ma manteneva anche una serietà morale rispetto alla sua arte. Ritornando al saggio su Dostoevskij (che egli scrisse lo stesso anno in cui pubblicò Infinite Jest), nel mettere a confronto il proprio  lavoro e  quello dei suoi contemporanei con quello del grande russo, Wallace si lamenta di “come i nostri migliori istinti liberali siano diventati senza nerbo e puri estetismi, lontani da ciò che è veramente importante – motivazione, sentimento, convinzioni”. Il saggio è costantemente disseminato con tormentati incisi, dove Wallace pone domande sulla fede, sull’egoismo, sull’amore, sulla felicità: il suo modo di combattere contro una letteratura divenuta “esteticamente distante dalla vita veramente vissuta”. Gli intellettuali del suo tempo “sono diffidenti verso le convinzioni forti, dichiarate”. C’è bisogno di scrittori che abbiano “il fegato di provare” ad andare oltre l’ironia e il cinismo ed addentrarsi nei temi seri e metafisici su cui Dostoevskij ha passato la vita a scrivere.

Il collegamento tra i temi metafisici e “la vita veramente vissuta” è forte. Il critico letterario e cinematografico del New York Times, A.O. Scott, in un caldo commento, ha scritto a suo tempo che “dobbiamo resistere alla tentazione di considerare il suicidio di Wallace della settimana scorsa come qualcosa d’altro rispetto ad una tragedia privata”. È vero, in quanto c’è una dimensione medica nella tragedia su cui noi non possiamo, e non dobbiamo, speculare troppo. Ma che sia pubblica o privata, una morte è una morte, e noi ci poniamo domande su di essa a dispetto di noi stessi. Come può un uomo così vivo, pieno di meraviglia e acutamente concentrato sulle più importanti domande della vita, fare una fine così triste?

Chi porrà queste domande, e dove troveremo le risposte? Un romanziere americano non è obbligato, sulla scia della sua morte, ad adottare lo stile di Wallace, o le sue teorie sul romanzo o le sue sperimentazioni post-moderne. La cosa importante da fare, per rendere omaggio alla sua eredità, è prendere i suoi insegnamenti in modo serio e lavorare per chiudere lo scarto tra la letteratura e “la vita veramente vissuta”. La posta è alta e le domande su vita e significato riguardano ciascuno di noi, non solo gli scrittori o i filosofi. Noi tutti desideriamo essere persone reali, e non una furba specie di animale che si autoconserva. Questa è la cosa veramente importante.

(Santiago Ramos)