Lucetta Scaraffia, giornalista ed esperta di questioni bioetiche ha recentemente scritto su più giornali che molte critiche all’Humanae vitae, da più parti riproposte in occasione del quarantesimo anniversario dell’enciclica, sono fatte come se fossimo ancora nel 1968, e non fosse cambiato nulla da allora.

 

Qual era il clima culturale di allora e cosa è cambiato? I cambiamenti avvenuti giustificano chi parla del documento di Paolo VI come di un pronunciamento «profetico»?



 

Nel ’68 stava raggiungendo l’apice del successo l’utopia della libertà sessuale, cioè quella ideologia che prometteva la felicità se si fossero abbattuti tutti i divieti relativi ai comportamenti sessuali. Naturalmente, condizione prima di questa liberazione era la diffusione amplissima degli anticoncezionali artificiali, che permettono alle donne di comportarsi come gli uomini. Nelle società occidentali questa “liberazione” è avvenuta e oggi, dopo 40 anni, possiamo misurarne gli effetti e verificarne le promesse. Niente di tutto ciò che era stato promesso si è avverato: perfino il desiderio sessuale sembra essersi affievolito, mentre la solitudine affettiva e la disperazione sono aumentate, come rivela il consumo di droga e di antidepressivi in costante aumento. Quindi i pericoli che Paolo VI aveva individuato nell’uso di anticoncezionali artificiali, e quindi nella separazione totale fra sessualità e procreazione, si sono avverati: in questo senso, certo, l’Humanae Vitae è stata profetica.



 

Lo storico Adriano Prosperi ha descritto (Cfr. la Repubblica, 4 ottobre 2008) in toni foschi la posizione della Chiesa, riproposta da Benedetto XVI proprio a commento dell’Humanae vitae, sulla morale sessuale, giungendo a parlare di «volontà del clero di addomesticare l’eros». Una posizione in cui sarebbe assente (salvo la parentesi conciliare) la parola «amore». Le ha scritto in proposito il saggio Due in una carne. Le cose stanno proprio nei termini descritti da Prosperi?

Mi sembra che Prosperi, pur essendo un valente storico, in questo caso abbia rivelato una straordinaria mancanza di senso storico. Per prima cosa, bisogna ricordare che tutte le religioni, anzi tutte le culture, hanno cercato di “addomesticare l’eros”, per mille motivi relativi al funzionamento sociale, e non per brama di repressione.

Poi, che l’idea di amore che adesso abbiamo relativa ai rapporti fra donne e uomini è relativamente recente, cioè frutto del romanticismo ottocentesco. Prima l’amore matrimoniale non era inteso come innamoramento e passione, ma come sentimento che bisognava provare per il coniuge – a cui si era uniti nel 99% dei casi non da scelta personale, ma da ragioni familiari e sociali – e secondo la Chiesa il piacere sessuale aiutava il rinsaldarsi di questa unione. Parlando di matrimonio, la Chiesa si è a lungo tenuta lontana dall’usare il termine amore, anche quando furoreggiava la moda romantica, perché non voleva che questo sacramento indissolubile fosse legato ad un sentimento umano che, come tutti i sentimenti umani, era fragile e poteva facilmente finire. Nella storia del matrimonio, al termine amore nella società laica e secolarizzata è rapidamente subentrata l’idea di soddisfazione sessuale, ancora più peritura, e la separazione fra sesso e procreazione ha minato le fondamenta di questa istituzione. Mentre invece l’unione fra sesso e procreazione poneva direttamente al centro dei sentimenti dei coniugi il mistero della creazione, e quindi la presenza di Dio nella coppia, l’unica in grado di assicurarne la profondità e la durata.

Potrebbe portare qualche esemplificazione dell’«interesse e ascolto» che sta trovando «la proposta cattolica di una sessualità non separata dalla procreazione, non depauperata del suo mistero, e di una concezione del corpo nuova», di cui ha parlato in un recente articolo?

Penso all’infelicità dei giovani, spinti dal “politicamente corretto” ad avere rapporti sessuali fin da giovanissimi per non sentirsi diversi dagli altri, e sempre più incapaci di costruire legami sentimentali di qualche durata. Penso alle difficoltà che hanno le giovani donne, che in fondo al cuore, anche se studiano e lavorano, desiderano una famiglia e dei figli, a trovare ragazzi disposti ad assumersi responsabilità vere. Lo vedo nei miei studenti, lo vedo fra gli amici di mia figlia. Si tratta di un gruppo di ragazzi di 26-27 anni, nessuno dei quali sposato, e pochi con legami sentimentali stabili, tranne una ragazza che si è sposata con un ragazzo senegalese, bravissimo e serio, e hanno un bambino meraviglioso. Dal modo in cui le amiche la guardano, capisco quanto invidiano la sua condizione: ma oggi sembra che solo gli extracomunitari siano disponibili a fondare una famiglia. Quindi la crisi è forte e sentita, il fallimento dell’utopia della “rivoluzione sessuale” balza agli occhi di tutti, ed è da qui che bisognerebbe ripartire per parlare ai ragazzi. Proprio il contrario di quel che dicono i giornali, che scrivono invece che proprio riparlando dell’Humanae Vitae la Chiesa si allontana dai giovani. Certo, bisogna saper parlare, spiegare, non solo ribadire divieti.