Era abbastanza prevedibile che il recente accenno di Benedetto XVI alla caducità dei soldi, a fronte della stabilità della Parola di Dio, suscitasse interesse e curiosità di un quotidiano come Il Sole 24 Ore che di soldi si occupa per vocazione. Così ho aperto con una certa aspettativa l’inserto domenicale del quotidiano della Confindustria per vedere se qualche illuminato uomo di cultura sarebbe intervenuto sull’argomento. Sorpresa: ci sono ben due paginoni fitti. Mi butto nella lettura e, man mano che avanzo, mi prende lo sconforto. Non sarebbe meglio tacere quando non si hanno argomenti importanti da proporre?



Emma Fattorini fa il suo compitino con l’elenco delle encicliche sociali dei Sommi Pontefici da Leone XIII della Rerum novarum a Giovanni Paolo II; in attesa di quella annunciata del papa regnante. Prima, però, ci spiega come «le parole di Rantzinger sulla crisi economica indicano un ritorno alla redici spirituali e alla ricerca di un’etica comune». La quale etica comune avrebbe un saldo principio: «la coerenza fra le proprie convinzioni e il proprio agire». Etica uguale coerenza; siamo a livello dell’omelia.



Dal canto suo Giancarlo Zizola presenta il magistero «economico» di Giovanni Paolo II ed in particolare la Cenntesimus annus. Ciò gli serve per riprendere vecchi cavalli di battaglia anticapitalisti. Indubbiamente «Wojtyla è fermo nel rifiutare l’assioma secondo cui la disfatta del socialismo reale lascerebbe il posto al solo modello capitalistico». Resta però il vago sentore che lo Zizola in fondo faccia ancora il tifo proprio per il modello socialista, come se ciò di cui stiamo parlando sia la stessa discussione degli anni della guerra fredda o di quelli del successo della teologia della liberazione.



Lo sconforto per la pochezza dei contenuti si acuisce leggendo l’articolo di Massimo Firpo. Dopo aver sostenuto che l’appello papale a considerare la aleatorietà dei soldi «rischia di essere offensivo e umiliante per i tanti che di soldi ne hanno pochi e con essi devono campare», racconta di come equalmente cardinali e papi del rinascimento hanno accumulato un sacco di soldi con spregiudicate manovre finanziarie. E così gli antichi principi della Chiesa rientrano nell’elenco dei «pochi che invece di soldi ne hanno tanti», i quali non danno certo peso ai richiami spirituali come quelli di Benedetto, «nell’indefettibile convinzione che le leggi del mercato sono più rigorose di quelle di Dio». Unica consolazione: il fatto che «anche con le aberrazioni dell’alta finanza» cardinalizio-papalina sono state costruite impareggiabili opere d’arte.

Lascio per ultimo il pezzo di apertura, firmato da Emilio Gentile, perché è stato l’apice dello sconforto. L’idea di fondo è che il richiamo di Benedetto XVI non può essere ben accetto negli Sati Uniti, «un paese per cui la ricchezza è un dono della Grazia». Il cristianesimo secondo Gentile (che cita ampiamente se stesso per tutta la prima colonna dell’articolo) si basa sulla povertà proclamata da Gesù nel Discorso della Montagna. Discorso ripreso da Benedetto XVI, pur essendo egli il «capo di una Chiesa tuttora contornata da una trionfale opulenza barocca, che è molto lontana dalla modesta dimora del figlio di un falegname» (così Gentile tira la volata a Firpo). Lo sconforto non è tanto perché uno si domanda se stia leggendo queste parole su un bollettino missionario o sul quotidiano della Confindustria. Lo sconforto è per quella opposizione fra Discorso della Montagna e «ricerca della felicità su questa terra». Come a dire che i cristiani devono accontentarsi di cercare la felicità nell’altro mondo. Qui, su questa terra, lascino fare a chi se ne intende. Ma il figlio del falegname non ha forse promesso, già qui, il centuplo?