«Quando Paul Valery scrisse che la storia è il prodotto più pericoloso che la chimica dell’intelletto abbia elaborato, naturalmente pensava alle manipolazioni della storia messe in atto in Europa per preparare ideologicamente le due guerre mondiali, ma a volte si ha l’impressione che si riferisse in particolare alla Russia», ha affermato recentemente lo storico Nikita Solokov in un ampio saggio pubblicato in Italia da La Nuova Europa (n. 4, 2008).
La famosa «neutralità» della storia nei manuali scolastici mostra sempre più la corda, come confermano le polemiche che si sono recentemente sviluppate sia in Russia che anche in Occidente intorno a questa disciplina. Del resto – continua Sokolov – l’immagine mitica della storia patria impressa nelle coscienze dei contemporanei attraverso libri di scuola, stampa popolare e cinema svolge da secoli un ruolo importantissimo nella cultura europea, assumendo lo status di “puntello ideologico” della nazione».
Su che cosa punta la Russia oggi, qual è il modello che viene proposto alle nuove generazioni?
Circa un anno fa – per iniziativa dell’amministrazione del presidente – nella scuola sono stati risolutamente introdotti due testi di storia russa contemporanea (per gli insegnanti e per gli alunni), preparati da uno staff di storici coordinato da Aleksandr Filippov, che tra l’altro giustificano l’Unione Sovietica e presentano Stalin come «un manager di successo». Se quest’ultimo fatto ha suscitato forti discussioni e polemiche nella società russa, la questione di fondo è realmente globale, riconduce al controverso tema della memoria storica russa e al problema del sovrapporre alla realtà un’ideologia, un’immagine del passato, che non corrisponde né alla situazione né ai compiti reali della società russa.
Molte associazioni, tra cui Memorial, che si occupa di salvaguardare la memoria delle vittime del regime sovietico, hanno messo in evidenza che ogni ricostruzione storica selettiva e parziale è molto pericolosa. Soprattutto perché impedisce alle giovani generazioni di guardare con occhio realistico il proprio passato e, quindi, preparare un futuro migliore. Fin dal suo apparire, nel XVIII secolo, la storiografia russa non è stata esente da epopee e mitizzazioni che caratterizzano anche la lettura nostrana, ad esempio, della Rivoluzione francese, del Risorgimento o della Resistenza. Schematizzando, potremmo dire che all’inizio dell’Ottocento la storiografia ufficiale elaborata da Nikolaj Karamzin delineò la storia della Russia come storia della creazione di uno Stato potente, fondato sul carattere autoritario e sacrale del potere dello zar. Ma la cosa interessante è che questo schema si è così saldamente radicato nella mentalità russa, da determinare ancor oggi, per molti aspetti, la percezione che i russi hanno di sé: la Russia è uno Stato potente che segue una propria via particolare, diversa da quella «europea» (oggi si direbbe, «americana»); vive come una «fortezza assediata», circondata da nemici esterni; per garantire la sopravvivenza della nazione bisogna concentrare tutte le risorse nelle mani di un potere centrale, sul cui altare val ben la pena di sacrificare anche i diritti umani, ai fini di conservare l’integrità dello Stato o della nazione.
Interessante notare che in epoca sovietica gli storici del regime non hanno buttato a mare questo schema, al contrario l’hanno riutilizzato semplicemente adattandolo alle loro necessità ideologiche ed imponendolo con ben più radicale determinazione. Ecco perché il metrò di Mosca – la Biblia pauperum del regime sovietico – presenta sontuosi mosaici con gli eroi delle saghe epiche russe, Aleksandr Nevskij con gran sventolare di gonfaloni e insegne sacre, o il cipiglio minaccioso di Pietro il Grande. In questa chiave di lettura, il coronamento della storia russa era evidentemente l’instaurarsi del comunismo e la vittoria dell’URSS nella seconda guerra mondiale era la riprova dell’efficacia della macchina statale totalitaria.
Dopo la parentesi della perestrojka, che aveva introdotto una scala di valori di carattere fondamentalmente liberal-democratico, oggi siamo tornati decisamente a Karamzin, secondo una precisa impostazione formulata da Putin, fin dal 2003, con l’asserzione che i manuali di storia «devono educare nei giovani un senso di orgoglio per la propria storia e il proprio paese». Sarebbe semplice, se si trattasse solo dell’ennesima imposizione ideologica piovuta dall’alto: ma non dimentichiamo che il manuale di Filippov, la sua descrizione della Russia come una «fortezza assediata», pesca in una diffusa mentalità russa, profondamente ferita nel suo amor proprio di potenza decaduta e concorde nel definire il crollo dell’URSS come una delle più gravi sciagure del proprio paese.
Non si può vivere senza amore e orgoglio per la propria identità, per il proprio paese: il modello liberal-democratico presentato oggi da un Occidente «sazio e disperato», da un’Europa devastata «da uno strano odio contro se stessa» (come l’ha definita Benedetto XVI), qui in Russia non alletta nessuno e non ha alcuna chance di diventar popolare. In realtà, russi avrebbero tanti motivi per amare e andar orgogliosi la propria identità, la propria patria, ma per recuperarli occorre un altro percorso – tornare alle fonti della propria santità, della propria cultura, a geni universali dell’umanità che non sono mancati neppure in quest’ultimo scorcio del XX-XXI secolo. Ad esempio, sarebbe interessante chiedersi perché Solženicyn sia tuttora così ostracizzato e mistificato, tanto in Russia come anche nel nostro libero e democratico Occidente.
Forse perché la sua è una posizione scomoda, che ci rimette ancora una volta tutti in questione perché non divide il mondo fra buoni e cattivi, democratici e non, ma ripropone la responsabilità della persona umana e del popolo come soggetto della storia.