Il dissenso in Unione Sovietica ha avuto manifestazioni diverse: alcune pubbliche come le dimostrazioni in piazza o le lettere aperte; altre sotterranee, come la scrittura e la diffusione di testi clandestini. Quello che in genere sfugge all’attenzione è invece il momento precedente, perché alla fase pubblica approdava solo chi già aveva percorso un certo cammino personale e aveva fatto una scelta di campo, rinunciando consapevolmente alla vita normale; era in questa prima fase per così dire “interiore” che avveniva lo scollamento dai valori universalmente riconosciuti e maturava la decisione di uscire alla scoperto.
Anche molti che avevano una posizione meno arrischiata e si fermavano allo stadio del “dissenso in pectore” (solo in ambito privato o in modo anonimo), avevano comunque vissuto un distacco dalla mentalità comune. Che cosa poteva indurre dei cittadini totalmente immersi nella cultura totalitaria a una simile presa di coscienza?
Se consideriamo l’epoca in cui il dissenso è nato, la fine degli anni ’50 e il post disgelo, troviamo una società dove tutto era diventato più soft, non più l’aperta violenza fisica dello stalinismo né l’intollerabile violenza psicologica delle grandi campagne ideologiche; i valori del socialismo (sempre i medesimi) si consideravano ormai “acquisiti”, erano risaputi e astratti, un vero concentrato di moralismo per benpensanti sovietici imborghesiti.
In questa normalizzazione generale, quello che restava abnorme era la discrepanza tra principi e realtà, la doppiezza delle coscienze, lo scarto tranquillamente accettato fra il dire e il pensare, il vile accontentarsi di affermazioni altisonanti notoriamente false, l’entusiasmo di maniera, la cortina tirata sulle vittime del recente passato.
Il nichilismo di fondo dell’ideologia bolscevica, prima camuffato col mito della costruzione sociale, adesso si ripresentava stemperato in un nichilismo spicciolo fatto di alcolismo, piccola disonestà quotidiana, indifferenza, ipocrisia, cinismo. Soprattutto doppia coscienza, doppia morale: ed era questo a toccare sul vivo le persone più sensibili, soprattutto i giovani. Ricorda Vladimir Bukovskij, poi dissidente coraggioso e prigioniero di coscienza di lager e manicomi, che in casa sua i rapporti si erano rotti quando, dopo le rivelazioni di Chruscev sui crimini di Stalin, aveva chiesto ai genitori se loro sapessero… “certo”, era stata la risposta.
La sua ribellione era iniziata in quel momento, perché gli era parsa inaccettabile, oscena, questa rassegnazione, questa viltà devastante. Dissentire bisognava innanzitutto da questo stato di cose, da questa vergogna che era sì un fenomeno sociale, ma toccava direttamente ogni singola persona. E quindi bisognava dare una risposta personale. Era in sostanza una forma di attaccamento a sé, il desiderio di qualcosa di meglio per la vita.
Poi la vita ha portato alcuni ad esporsi, altri a lavorare più nascostamente, ma sempre con questo punto di partenza positivo, dirompente.
L’espressione più intensa di questa ribellione interiore al nulla rimane la poesia di Jurij Galanskov, Il manifesto umano, che veniva letta sulle piazze anche dopo che l’autore era già morto in lager:
«L’uomo è scomparso. Insignificante come una mosca, si muove appena sulle righe dei libri… Ci siamo abituati a vedere, passeggiando lungo le vie nelle ore libere, volti imbrattati dalla vita, proprio come i vostri. E ad un tratto, come rombo di tuono e come la venuta al mondo di Cristo, insorse calpestata e crocifissa, la bellezza umana…».