Francesco Bonami, il curatore di mostre più mediatico che ci sia, è un po’ come Mourinho. Probabilmente non è quel gran critico che si dice, pur vantando i galloni di curator del museo di Chicago, ma è uno che ha l’abilità di scompaginare le carte e di violare qualche dogma culturale. Come Mourinho, fa parlare più per i dispetti che fa che non per il gioco che mette in campo. Ma, a volte, ben vengano i dispetti.
Bonami ha organizzato a Venezia una mostra chiacchieratissima che ha la pretesa di raccontare l’arte italiana dal 1968 a noi. Italics è il titolo (la mostra è a palazzo Grassi). Ed è una mostra di cui francamente nessuno sentiva la mancanza, anche perché questi 40 anni ci sono stati raccontati a raffica da continue rassegne, spesso alimentate dalla sacrosanta spinta del mercato. Angoli bui ne sono rimasti francamente pochi, e discorsi complessivi è davvero arduo farne, tanto il panorama è sfaccettato (come ha detto saggiamente Angela Vettese recensendo la mostra sul Sole 24 Ore: “a nessuno interessa più, se non del proprio particulare”). Comunque Italics un pregio ce l’ha: ha rimescolato un po’ di carte, ha fatto a meno di grandi artisti che sdegnosamente si sono chiamati fuori (vedi Yannis Kounellis: ma del resto quanto Kounellis abbiamo visto in questi anni! E poi, da quanto, Kounellis, non dice qualcosa di nuovo?). Chi l’ha vista ci racconta di sale davvero sorprendenti per accostamenti. È unanime la consacrazione di Alighiero Boetti con la statua che chiude la rassegna: un Autoritratto a figura intera, scaldato da una resistenza interna a livello della testa e bagnato da un getto d’acqua, che genera vapori tutt’intorno.
Il 1968 del resto è una data dura per iniziare, perché è un anno che si lascia alle spalle due giganti, usciti di scena poco prima: Giorgio Morandi (morto nel 1964) e Lucio Fontana (morto proprio nel 1968). È in questa situazione di vuoto, un po’ da fine di un’epoca, che s’infila leggero, libero e geniale Mario Schifano. Lui ovviamente a Italics c’è. E lo si nota perché ha una grazia e una larghezza (sia intellettuale che di cuore) che lo smarca da tutto il contesto. Schifano lo potremo vedere anche a Milano dal 17 ottobre in una strana mostra dispersa in più luoghi (Brera e la Fondazione Credito Valtellinese). La mostra viene da Roma, dove ha raccolto grande successo. Marco Meneguzzo, recensendola per Avvenire, ha scritto alcune cose da annotarsi. Ad esempio questa: “Schifano incarna davvero tutte le virtù e tutti i vizi dell’arte italiana con una continuità istintiva che potrebbe risalire comodamente a Giotto, un tratto distintivo che la rende unica. Velocità, composizione, superficie, “fare grande”, eclettismo della fantasia e rispetto dello strumento – più ancora del linguaggio – che si è scelto: in una frase la scelta della bellezza, comunque”.
È vero. Nella sua vita disastrata e anarchica, Schifano ha saputo ridar fiato, non si sa come, a qualcosa che sembrava irrimediabilmente perduto: una bellezza non come dimensione estetizzante ma come apertura d’orizzonte, come slancio, come innamoramento. A dispetto del disordine della sua biografia, Schifano ha saputo far lievitare un ordine leggero e imprevisto. Non perdiamo quindi l’appuntamento milanese. E non lasciamoci condizionare dalle mille voci malevole che planano sempre sull’arte di Schifano. Il vero Italic è lui.