“Come due gocce d’acqua”, si dice per indicare l’identità perfetta di due individui, che quindi sembrano due, ma – piuttosto che irrepetibili e singolari – sono in realtà uni-formi. Non veramente due quindi, ma solo piccoli ‘uni’ che si rispecchiano nella loro in-differenza.

Credo che il segreto della brillante metafora baumaniana – come il segreto della fortuna folgorante – non stia tanto nell’idea di una fluidità, legata a uno sciogliersi dell’antica affidabile solidità delle relazionid’un tempo, ormai private di precisi limiti, disperse in vasi resi troppo comunicanti dalla dissoluzione tardo imperiale dei ‘valori’. E’ decisiva piuttosto l’intuizione che sta dietro alla fluidità: in virtù di una radicale omogeneizzazione delle differenze, si può intendere che il cosiddetto liquido celi – ma anche insieme renda evidente – una più reale e inattraversabile… impermeabilità. In altri termini, quel che la spinta postmoderna e irrefrenabile al consumer assoluto produce non è una più libera circolazione dei legami, quanto piuttosto una loro ridefinizione, che li riduce alla loro somiglianza, rimuovendo dalla scena la risorsa della loro differenza. E per questo sono legami che possono così facilmente dis-farsi, di-sciogliersi: se ad agganciarmi all’altro non c’è più lo stupore, la sorpresa enigmatica della sua diversità irriducibile, allora inevitabilmente resto il prigioniero annoiato della mia eternizzata stessità.



Nel dramma barocco di Calderon, un altro polacco, Sigismondo anche lui, ma in altro tempo da quello del nostro Zygmunt, si dispera proprio su questo punto: “La vita è sogno?”. Come, allora, toccare un reale che il sogno attutisce e allontana, ma anche avvolge e a suo modo mette in atto, e per questo non può essere semplicemente da rigettare… Come tollerare l’ambiguità etica di questa reverie, per la quale si rischia la follia di abbandonarsi nelle mani dell’altro, ma senza di cui resta -come unica soluzione- un malinconico rinchiudersi nel perimetro insopportabile e pur rassicurante della torre? La torre, che – nel dramma calderoniano – è fin dalla nascita il luogo della radicale segregazione di Sigismondo ma anche il suo rifugio contro l’inquietante imprevedibilità di un incontro reale.



La questione – così barocca e così attuale – mi sembra trovare una corrispondenza segreta con quella della “vita liquida” baumaniana. A ciascuno la sua torre? A ciascuno la sua piccola impermeabile goccia? Rispetto a cui il perdersi nel mare anonimo delle mille e mille identiche altre piccole gocce sembra di sollievo: sollievo del gruppo, che sancisce nell’omologazione un’appartenenza senza radici, fondata sull’immagine. Ma che in cambio chiede il sacrificio della singolarità, la rinuncia all’insopportabile differenza di ciascuna soggettività.

E’ quel che oggi dice a chiare lettere la pratica clinica: ci si ammala di anonimato. I ‘nuovi’ sintomi che oggi si disegnano nella patologia di sempre sono l’indice di una nuova inseparabilità del soggetto dall’infantilismo di certe forme della relazione, sorta di disimpegno dal volervi-potervi operare il giusto taglio. Vi resta invece caratteristicamente a bagno, invischiato in una non scelta, al di qua del desiderio come motore della crescita e della cura. Se dunque nella dimensione clinica la patologia coincide con un disimpegno soggettivo dal destino e dal suo dramma, sembra possibile pensare che questo corrisponda – nel campo sociale – alla liquidità baumaniana dei legami, che si mantengono come ruoli, ma senza separazione, senza progetto, senza desiderio: indifferenti, sempre diversi, sempre uguali.



Generosamente Bauman ha provato a dar nome al disagio che costituisce la postmodernità, sulla scia forse di un altro Sigmund, ebreo anche lui, che altrettanto appassionatamente ha avvertito come il disagio sia strutturale nella civiltà, insieme clinico e sociale, poiché è lo stesso legame tra soggetti che pone un interrogativo sulla soggettività: l’incontro con l’altro è costitutivo, ma i suoi esiti non sono scontati. Possono prendere vie diverse. Anche nefaste. Per questo prendere in conto con realismo questo disagio, il gesto di dargli nome, è essenziale a cogliere alla dimensione etica, per scegliere di mettersi al lavoro in altra direzione, in controsenso al Disagio della civiltà e alle sue incalcolabili derive. E’ il 1930, la “notte dei cristalli” è ormai in agguato, non ancora così vicina da soffocare la voce nell’orrore, ma non abbastanza lontana da permettere una via diversa dall’Olocausto: il cui tema è non a caso profondamente baumaniano. Anche per Bauman infatti le congiunture che portano al realizzarsi della Shoa toccano un punto nevralgico, non episodico dell’esperienza umana. Con l’Olocausto si evidenza – come ha più volte notato Lacan in snodi cruciali del suo insegnamento – la spinta irriducibile che l’universalismo della scienza ha indissolubilmente dato a forme di legame oscure, che si definiscono come “segregazione”. Marcare socialmente – come fa Barman – la liquidità delle convivenze, la cancellazione di confini e di passaggi, l’assenza del limite, dà nome al pericolo radicale – sociale e psichico – di una societas senza soglie, senza passaggi segnati, senza limiti, senza chiusure e quindi senza nemmeno vere aperture, nello scorrere senza traccia di distacchi, separazioni, lutti: far più leggero il dramma, dar l’oblio al disagio, liquefare la dimensione dell’incontro, rimuove anche il rischio-risorsa dei legami, la loro cura vitale, ciò che fa l’esistenza propriamente umana, come ricordava Eugenia Scabini nel suo intervento in questo dibattito.

La “vita liquida” può essere un nome sottile, che rende pensabile come dietro la facilità della circolazione universale e l’infinità delle reti stia la segregazione, la chiusura malinconica al legame con l’altro e al suo rischio vivificante. «In quanto compratori – dice Bauman – noi siamo stati istruiti da manager di mercato e da sceneggiatori pubblicitari a giocare il ruolo del soggetto – una finzione vissuta come una verità viva; una messinscena rappresentata come la “vita vera”, la quale però con il passar del tempo spinge via la vita vera e la priva di ogni possibilità di ritorno …».

Come in un film di fantascienza di qualche anno fa, I robot, a far mutare le sorti del dramma –  l’annientamento delle imperfette macchine umane a vantaggio della perfezione dei robot – sarà solo un piccolo imprevedibile gesto di intesa tra soggetti – poco importa se uno è umano e l’altro macchina umanizzata – in quanto interessati al loro reciproco destino.

Panta rei, tutto scorre, la vita liquida, la vita che scioglie dal legame facendo finta di non reciderlo, può sembrare dunque una strada imboccata, ma è ancora rinunciabile se ne siamo avvertiti… Per un soggetto che possa scegliere – ancora – per un’etica del legame.

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