Dialogo è una delle parole più abusate e usurate nel vocabolario del confronto tra uomini che praticano un’esperienza religiosa. Può essere il piccolo cabotaggio del politically correct o rappresentare una sfida con la quale misurarsi per far conoscere all’interlocutore ciò che si ha di più caro, nel desiderio che anch’egli faccia altrettanto. Il seminario organizzato a Roma dal 4 al 6 novembre dal Forum cattolico-musulmano – istituito dal Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso e dai rappresentanti dei 138 leader musulmani che nel 2007 avevano firmato la lettera aperta rivolta al Papa e agli altri leader cristiani – è stato un “laboratorio di dialogo” a cui guardare con interesse per vari motivi.
Il tema centrale del confronto – “Amore di Dio, amore del prossimo” – è stato affrontato sia nei suoi aspetti teologici e spirituali, sia nelle dimensioni culturali, etiche e sociali. Nella dichiarazione comune firmata a conclusione dell’incontro, frutto di una laboriosa mediazione, vengono enunciati obiettivi molto impegnativi, specie se si pensa a quanto accade nel mondo musulmano: rispetto per la vita e la dignità di ogni persona, libertà di coscienza, dignità da riconoscere a uomini e donne su base paritaria, rifiuto di discriminazioni basate sulla fede, diritto di individui e comunità a praticare la propria religione in privato e in pubblico.
Ricevendo in udienza i partecipanti al seminario (che verrà replicato tra due anni in un Paese a maggioranza islamica), Benedetto XVI li ha esortati a “lavorare insieme nel promuovere il rispetto autentico per la dignità della persona umana e per i diritti umani fondamentali, sebbene le nostre visioni antropologiche e le nostre teologie giustifichino ciò in modi differenti”. E ha sottolineato che secondo la tradizione cristiana l’amore di Dio “si fa presente nella storia umana, è divenuto visibile, manifestato in maniera piena e definitiva in Gesù Cristo”. Niente equivoci sul piano teologico, dunque, e insieme l’indicazione di un percorso che è possibile costruire a partire dalla comune condizione umana. Il Papa ha usato parole forti a proposito della strumentalizzazione della fede operata a fini ideologici e politici: ha definito “atti ingiustificabili” la discriminazione e la violenza che i credenti sperimentano in tutto il mondo e le persecuzioni spesso violente di cui sono oggetto, “tanto più gravi quando vengono compiuti nel nome di Dio. Il nome di Dio può essere solo un nome di pace e fratellanza, giustizia e amore”.
Quale ascolto effettivo troveranno queste parole e gli impegni contenuti nella dichiarazione comune che ha concluso l’incontro del forum cattolico-musulmano? Difficile azzardare previsioni attendibili: le cronache testimoniano quanto la libertà religiosa, tema centrale di qualsiasi confronto che non voglia ridursi ad accademia, continui a subire violazioni. E a ricordarlo è arrivata proprio in questi giorni, indirizzata ai partecipanti al seminario romano, un’accorata lettera aperta firmata da 144 cristiani dell’Africa del Nord e del Medio Oriente (tra cui 77 musulmani convertiti al cristianesimo): in essa si chiede che la legge islamica non sia applicata ai non musulmani e che la libertà di cambiare religione venga riconosciuta come diritto fondamentale.
Le due delegazioni che si sono riunite in questi giorni erano composte da teologi, esperti e autorità religiose. Come noto, a differenza di quanto accade in campo cattolico, nel mondo musulmano non esiste una gerarchia formalmente e unanimemente riconosciuta. Ma è da salutare con interesse il fatto che nella delegazione islamica fossero presenti diverse espressioni della “umma”. Anche la “lettera dei 138”, nata sull’onda lunga suscitata dal discorso di Ratisbona, era stata sottoscritta da una pluralità di voci (sunniti, sciiti, ismailiti, sufi, originari di 43 Paesi): questo conferma la serietà e la novità di un’iniziativa volta a creare un consenso di fondo al dialogo con i cristiani all’interno di un mondo composito e spesso (al di là delle dichiarazioni di facciata) discorde. Un mondo in cui le aperture al confronto con l’altro e il desiderio di misurarsi con la modernità convivono con le pulsioni nichiliste e con i sogni di egemonia politico-religiosa. Un mondo con cui è più che mai necessario costruire l’alfabeto di una convivenza che abbia al centro la sacralità e la dignità della persona, a partire da quella “ragione allargata alla trascendenza” che il discorso di Ratisbona ha riproposto come terreno di lavoro comune.